Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
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Ideato e sceneggiato da Giancarlo Castelli, con la regia dell’esordiente Maurizio Cartolano, il patrocinio di Amnesty International e Articolo 21, e la produzione di Ambra Group (in collaborazione con il Fatto Quotidiano che lo venderà in allegato al giornale dal 30 novembre) è stato presentato al Festival 148 Stefano. I mostri dell’inerzia. Programmato nella sezione Eventi speciali, davanti ad una platea commossa e numerosa (presente anche il sindaco Gianni Alemanno) il documentario usa la videografica, le lettere di Stefano, i filmini di famiglia, le registrazioni delle udienze e lo schema tradizionale delle interviste a telecamera fissa (tranne quella al padre che cammina per il quartiere natale di Tor Pignattara, tanto caro al figlio) per ripercorrere la terribile odissea di Stefano Cucchi, giovane romano, arretrato per possesso di droga, percosso dagli agenti, e morto in circostanze ancora da definire nell’ospedale detentivo Pertini di Roma il 22 ottobre 2009. Sarà la 148esima persona morta in un carcere italiano dall’inizio di quell’anno. La vicenda è complessa, inspiegabile e tragica perché nei sei giorni, dall’arresto alla morte, il giovane avrà almeno un contatto visivo con diverse decine di persone (infermieri, guardie, medici, magistrati) e nessuna si prenderà in disturbo di ‘guardare’ Stefano, di capire che stava male. Ogni spettatore sentendo anche solo la registrazione dell’udienza di convalida e il suo: “Sono Stefano Cucchi. Scusate non riesco a parlare bene” potrà intuire il suo dolore fisico. Tanti mostri dell’inerzia appunto che hanno portato a un omicidio di Stato, un omicidio del quale lo Stato deve rispondere perché in una democrazia i cittadini non possono veder negato il diritto alla vita.
Del processo ancora in corso si parla poco. Il documentario cerca di far emergere tutta quanto l’assurdità di questa vicenda e soprattutto vuole raccontata la figura di un giovane di trent’un anni, che pur con dei problemi, era un ragazzo come gli altri, a dispetto di quello che determinati media e avvocati hanno affermato. Maurizio Cartolano risparmia allo spettatore le immagini violente del suo corpo martoriato sul tavolo dell’obitorio (i familiari furono costretti a mostrarle per far in modo che la vicenda non fosse archiviata) ma con il rotoscoping, la videografica e l’uso di tre colori netti e forti come il bianco, il rosso e il nero, ci mostra Stefano in quei 6 giorni, dal parco dell’arresto al carcere, fino al momento in cui i genitori abbracciarono un corpo del figlio senza vita. Il regista racconta in maniera corretta la vicenda lasciando un profondo senso di ineluttabile che aleggia senza alibi, sperando che primo o poi qualcuno si assuma le responsabilità di quello che realmente accadde in quei giorni.