La dimensione della malattia, della solitudine, dell’amore. Pulce non c’è di Giuseppe Bonito, tratto dal romanzo omonimo di Gaia Rayneri – presentato nella sezione Alice in città al Festival Internazionale del film di Roma – è l’occasione per guardare quello che – parafrasando il titolo – pensiamo o a volte sarebbe più facile pensare non ci sia. Margherita Camurati, detta Pulce, è una bambina autistica e celebrolesa che, come dice la sorella “non c’è per le maestre perché non sa fare i compiti, non c’è per lo psicologo perché pensa non sappia fare gesti semplici come salire le scale, non c’è per i compagni che sull’altalena si arrabbiano per i suoi modi bruschi e la chiamano mostro”. Non c’è nella situazioni convenzionali che pensiamo siano la normalità di una vita quotidiana. E invece c’è, è reale ed è la gioia (e il dolore) della sua famiglia che intorno ai suoi bisogni fa ruotare tutta l’esistenza: il padre – un intenso Pippo Delbono – ricorda che da 8 anni il suo unico svago è andare a far la spesa, la madre – Marina Massironi – ha lasciato l’insegnamento in università per seguire la figlia. E poi c’è Giovanna, la sorella tredicenne di Pulce che vorrebbe vivere la sua condizione di adolescente: le prime emozioni amorose, il corpo che cambia ma deve fare i conti con la solitudine che ogni bambino sente in una famiglia dove c’è un fratello/sorella malato/a. E come se non bastasse c’è l’enorme equivoco che stravolge le loro esistenze. Il film infatti inizia raccontando la famiglia ma poi ci porta nel dramma: il padre delle bimbe viene accusato di molestie sessuali perpetrate sulle figlie e Pulce viene allontanata dalla famiglia. Di Giovanna la vicenda; dell’essere più visibile per il mondo (a tredici anni si ci affaccia alla vita degli adulti e si cerca di esprimere agli altri chi siamo) e allo stesso tempo invisibile del film – per i genitori troppo presi da altro, per l’amica presa da se stessa, per la città di Torino indolente che gli ruota attorno con i suoi tram, la sua nebbia, la gente al mercato – è lo sguardo, la voce narrante che esplicita più volte la sua incomprensione per i termini usati dai grandi, per le loro regole così incomprensibili. Suo il racconto delle sensazioni ed emozioni lasciate da tutta la vicenda. Attraverso le sue soggettive e le sue emozioni vediamo Pulce, la mamma e il babbo. Vediamo una ragazza di tredici anni che sa vedere la sorella, sa riconoscere e accettare la sua identità, tanto che ad un certo punto afferma: “Pulce non parla ma questo non vuol dire che non abbia nulla da dire”.
Dopo diversi lavori come aiuto regista di Sergio Citti, pubblicità, documentari, videoclip, e in particolare per Boris – Il film (dopo aver collaborato anche alla serie TV omonima) – il regista arriva alla sua prima regia portando con sé proprio gli autori di Boris: Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo. Abbiamo apprezzato l’attenzione alla scelta compiuta sul cast a partire dalle donne, dalle tre generazioni presenti. C’è Giovanna, Francesca Di Benedett0: un’ottima interprete capace di farci arrivare attraverso il suo sguardo la complessità dell’amore, fatto anche di momenti di odio, di incomprensione, di sottrazioni e di avvicinamente verso l’altro. La mamma è Marina Massironi sempre più a suo agio in ruoli drammatici e la nonna Piera degli Esposti, l’unica in famiglia che è in grado di avere uno sguardo aperto anche sul mondo: è lei che legge le carte processuali e in parte giustifica il provvedimento, comprendendo cosa lo ha generato e soprattutto è lei che “vede” Giovanna, che le compra un vestito capendo che si trova davanti ad una ragazza che sta crescendo e non può portare sempre e solo tute da ginnastica perché quelle possono essere passate alla sorella minore. Abbiamo apprezzato il rapporto onesto tra gli elementi che dosano il racconto, il rapporto creato tra il dentro e il fuori (della famiglia e della protagonista rispetto al mondo esterno), lo sguardo curioso che indaga l’universo oscuro di Pulce. Abbiamo sofferto un po’ invece per l’impianto registico, per i movimenti di macchina che pongono lo sguardo dello spettatore sempre un passo indietro.