Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Dopo la visione dell’episodio pilota lo scorso anno, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul successo di Revenge, serie di Mike Kelley in perfetto schema soap opera che, piano piano sulla ABC in tutta la sua prima stagione, ha mantenuto stabili non solo gli ascolti, ma ha persino ottenuto le simpatie di qualche critico tanto da indurre il canale, per la sua seconda stagione – a partire dal prossimo 30 settembre -, a spostarne la messa in onda dal giovedì alla domenica sera nell’appetibile fascia oraria lasciata orfana da Desperate Housewives. Certo, non c’era da scommettere né nel cast, né nella storia, né nella messa in scena. Emily VanCamp dal viso dolce della ragazza della porta accanto un po’ snob (in passato impegnata a fare la gatta morta depressa in Everwood e la gatta morta confusa in Brothers & Sisters) nelle vesti di un angelo vendicatore machiavellico e inarrestabile sembra fuori parte, ma è proprio quel contrasto fra aspetto e carattere a conferire maggiore interesse al personaggio. D’altra parte, il comeback di una Madeleine Stowe, dopo anni di anonimato fatto di qualche brutto film per la tv e qualche particina sporadica, non sembrava proprio dei più gloriosi nelle vesti dell’ape regina di un clan famigliare, i Grayson, costruito su una ragnatela di segreti e bugie così fitta da far sembrare gli Ewing di Dallas e i Carrington di Dynasty dei dilettanti: grandissimo errore di valutazione per entrambe perché non bisogna mai sottovalutare la predisposizione del pubblico a prediligere i cattivi anziché i buoni, perché diciamocelo i buoni sullo schermo sono davvero noiosi.
Emily Thorne, giovane e ricca ereditiera, si trasferisce negli Hamptons accanto alla casa della famiglia Grayson, composta dalla perfida e manipolatrice Victoria, regina dell’ambiente ricco e danaroso della prestigiosa località balneare, dall’infedele marito Conrad e dai due figli, il debole Daniel, la fragile adolescente Charlotte. La giovane e bella Emily è però Amanda Clarke, figlia di David Clarke, vecchio amante di Victoria e ricco uomo d’affari, socio di Conrad nella Grayson Global, che quasi vent’anni prima era stato incastrato dai Grayson con la falsa accusa di terrorismo e successivamente ucciso in carcere in circostanze misteriose, mentre la piccola Emily, grazie ad una psichiatra compiacente, veniva rinchiusa in un riformatorio. Decisa a tutto pur di ottenere la sua vendetta ed ereditata la fortuna paterna, Emily, alias Amanda, compra la casa che un tempo era stata di suo padre, cerca subito di entrare nel giro di conoscenze dei Grayson, conquista e seduce il bel Daniel… Ma Victoria è sempre più sospettosa circa la misteriosa vicina.
Una guerra di intrighi, tradimenti, sotterfugi tra ricchi e potenti costruita attraverso tutti i dettagli più specifici del genere soap opera: potere finanziario, figli illegittimi, corna, amanti, omicidi, sesso; finora manca all’appello l’incesto e il gemello cattivo, ma considerato il successo della serie, la probabilità di questi eventi è molto elevata! Ad una prima analisi non si comprende come un prodotto fondamentalmente mediocre come Revenge, che possiede gli psicologismi di un elefante, la nefandezza a tratti infantile di una Crudelia De Mon, passi dall’essere un qualcosa che resta indifferente ad un’ossessione che acquisisce i contorni della dipendenza. Perché non è quel qualcosa che annoia, che si guarda con orrore quando per tre secondi ci si imbatte facendo zapping in tv? Forse, dico solo forse, perché Revenge ha pur nella sua grossolanità, dove i buoni e i cattivi sono tagliati con l’accetta, un certo stile nell’esprimere l’essenza di sentimenti primari, come l’odio e l’amore, anche se qui il rapporto fra i due è di 10 a 0,1. E poi in questi tempi così bui in cui le ingiustizie trionfano e i ricchi la fanno sempre franca vedere qualcuno che si arma per sconfiggerli, pur per delle motivazioni personali, non può che risultare appagante. Questo perché in qualche modo Amanda Clarke, con la sua scelta di non restare una vittima diventa l’essenza di tutto quello che vorremmo vedere nel nostro mondo: i ricchi sconfitti, sofferenti, un’ape regina che vede il suo regno piano piano frantumarsi a causa dei suoi peccati commessi. Insomma, in qualche modo Shakespeare c’entra sempre qualcosa.
Noi trionfiamo ad ogni piccola vittoria di Amanda perché vorremmo essere lei, vorremmo possedere la sua grinta e la sua abilità nel mettere a tappeto chi ci ha fatto del male. Vedere Revenge sembra quasi un modo per esorcizzare i nostri demoni interiori, i torti subiti. Sembra l’essenza del romanzo d’appendice a trionfare, ma stavolta l’eroina buona non resta passiva ad aspettare un deus ex-machina esterno che le risolva tutti i problemi: è lei il suo dio, attraverso le sue abilità e la sua intelligenza che impiega per sconfiggere quel nemico così oscuro che le ha strappato la gioia di vivere, la bellezza dell’infanzia, l’amore di un padre. Quest’eroina, motivata dal dolore che le è stato procurato senza alcuna pietà, non è così buona, ma solamente umana. Questo perché l’essere umano non è fatto per il perdono, ma per la vendetta. E l’amore, trasmesso con il perdono, sicuramente in questo caso, non fa parte della nostra epoca. E questo, Mike Kelley lo dice chiaramente. Perché l’amore laddove è espresso sembra più un tornaconto personale, come al solito nella sua grossolanità, una forma di manipolazione nella quale cascano solo i personaggi non danarosi perché vittime dell’illusione. La nostra protagonista infatti sembra provare sentimenti positivi solo per un suo amichetto d’infanzia che ora ha le fattezze di un rude quanto dolce proprietario del pub locale, ma questi vengono messi da parte per conquistare l’ottuso Daniel solo perché fa parte del piano di vendetta. Ma poi ci si chiede: Amanda non è mossa dall’amore nel vendicare suo padre? Questa vendetta che si dipana di episodio in episodio, non solo nei confronti della famiglia Grayson, ma anche verso tutti coloro che sono stati a loro servizio nel mettere in atto la distruzione di David Clarke. Quanto di meglio sulla piazza per gli amanti di dialoghi farraginosi e banali, kitsch nell’opulenza del suo lusso volgare che riporta in auge quasi quei terribili anni Ottanta “soaperistici”. Quando il camp furoreggia in tutto il suo splendore, ma d’altronde c’è bisogno anche di questo.