Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Riprendiamo Italian Graffiti quando i fuochi del Festival di Venezia non si sono ancora veramente spenti. In mezzo alle polemiche per premi assegnati e rifiutati tra Barbera, Bellocchio, Mann, Garrone e chi più ne ha più ne metta, fa capolino un film italiano dimenticato di un autore altrettanto rimosso. E’ Pagine chiuse di Gianni Da Campo, riproposto in Laguna nell’ambito di una delle novità più pregnanti della seconda gestione Barbera. Al posto della tradizionale retrospettiva, infatti, da quest’anno il nuovo direttore della Mostra ha scelto di inaugurare due percorsi diversi: Venezia Classici e Venezia Restauri, ovvero la riproposizione di opere restaurate per l’occasione. Accanto a notissimi classici presentati in nuova e luminosa veste (pure troppo, come nel caso di Gli uomini preferiscono le bionde di Howard Hawks, a cui il restauro digitale sulla fotografia ha conferito una perfetta, altissima definizione molto innaturale per un film del 1953), abbiamo visto o rivisto opere dimenticate e disperse.
Il film di Da Campo appartiene a questa seconda categoria, e a Venezia ha lasciato una certa traccia. Qualcuno ha pure detto che “era il film più bello di questa edizione”. E con molte ragioni, poiché in pochi altri film passati nelle varie sezioni del festival si è ritrovata la stessa radicalità di sguardo, la stessa purezza d’approccio e onestà intellettuale. Gianni Da Campo ha diretto solo tre film, ma con il suo esordio, Pagine chiuse, suscitò grande apprezzamento alla Semaine del Festival di Cannes. Si tratta di un racconto radicato nell’autobiografia, in cui Da Campo rievoca la sua esperienza infantile in un collegio cattolico, specchiandosi nel giovane protagonista, Luciano, e nei suoi piccoli grandi scontri con la realtà di un istituto repressivo. Per Pagine chiuse si è parlato di “neorealismo”. Definizione accettabile, se parliamo però di “neorealismo consapevole”. Del nostro migliore cinema anni ’40 Da Campo sposa le pratiche più macroscopiche, a partire dall’utilizzo più o meno sistematico di attori non professionisti, malamente doppiati com’era d’uso anche in Rossellini e De Sica. Ma rispetto al “cinema di guerra”, sporco e diretto, che si ferisce nella messa in forma di una realtà avvertita come urgente e violenta, il film di Da Campo mostra una scelta estetica meditata e consapevole. Le inquadrature non sono “occasionali”, ma frutto di una riflessione. Il racconto è cauto e quotidiano, scandito da piccoli eventi, in un confronto costante con le leggi violente di una “formazione sociale” fondata sulla privazione e il non-rispetto dell’individualità. E’ costante anche il confronto col sacro, sia nelle sue forme istituzionali (il terribile prete) sia nella sua presenza in atti e consuetudini culturali. Altri vollero vedere in Pagine chiuse segnali di contestazione, visti gli anni in cui fu girato. Certo, le istituzioni religiose ne escono un po’ malconce, ma in Da Campo, che girò il film a 23 anni, non vi è la minima traccia del furore iconoclastico del giovane Bellocchio. Si avverte invece un gran lavoro sulla moralità dell’immagine, sul rispetto per l’umanità delle figure evocate, in cerca di una visione, per quanto possibile, priva di sovrastrutture e preconcetti. Un recupero prezioso, che si spera abbia presto una distribuzione (almeno) in home video.