Una faccia molto popolare, simpatica e truce, sorridente e durissima. Popolare e amata, ma capace di svariare con disinvoltura dal garbato buonumore al ghigno della carogna. Si è spento ieri a 95 anni Ernest Borgnine, protagonista di una lunghissima carriera cinematografica, dagli anni ’50 ad oggi. Ai suoi esordi, Borgnine è stato a suo modo protagonista di una piccola grande rivoluzione nel cinema americano, in quell’arco di transizione dalla Hollywood classica e mondana anni ’30 e ’40 al realismo e alle amarezze del decennio successivo. Nel 1955 Marty vita di un timido di Delbert Mann raccolse una messe di premi in tutto il mondo, tra cui 4 Oscar nelle categorie principali. Film, regia, sceneggiatura di Paddy Chayefsky. E anche la statuetta per il miglior attore, che andò a sorpresa a un semisconosciuto Ernest Borgnine, all’epoca ricordato soprattutto per il ruolo del crudele sergente Judson in Da qui all’eternità (1953) di Fred Zinnemann. Perché fu una rivoluzione? Perché Marty era un tentativo di lieve dramma sociale, ancorato a un realismo di piccole storie e piccoli protagonisti. Talvolta si è parlato di “neorealismo americano”: in realtà il contesto creativo e produttivo restava lontano anni luce dalle asperità del nostro cinema anni ’40. Per Marty, e per prodotti simili, si trattò di una vera scelta di Studio, ovvero una riforma parziale dei mezzi espressivi pertinenti all’industria americana, per andare incontro a storie più reali e credibili.
Borgnine apportò un contributo fondamentale al successo del film, che vinse pure la Palma d’Oro a Cannes, costruendo il personaggio su qualche contributo autobiografico (Borgnine era di genitori italiani, e Marty incarnava un personaggio di italo-americano). Seguì una carriera foltissima di titoli, che collocò Borgnine in un territorio mediano tra il grande caratterista e, più di rado, il protagonista di razza. La sua fisicità gli permise raramente di calarsi in ruoli di primo piano (se non, per l’appunto, in ruoli marcatamente tipizzati, come in Marty), ma nel corso di ben sei decenni ha acquisito una popolarità pressoché universale. Brillante, estroverso, ben sostenuto da una fisicità robusta e talvolta debordante, si è mosso per gran parte della sua carriera all’interno della Hollywood più convenzionale e rassicurante, spesso in filmoni di genere (basti ricordare Quella sporca dozzina, 1967, di Robert Aldrich). Ma parallelamente ha inanellato anche incontri autoriali importanti. Fece parte del leggendario Mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah, entrò nel cast di 1997 Fuga da New York (1981) di John Carpenter, per lasciare poi, già avanti con gli anni, una traccia indelebile nell’episodio di 11 settembre 2001 (2002) diretto da Sean Penn. Episodio unanimemente ritenuto tra i migliori del film collettivo, anche per la grande prova di Borgnine, tutta improntata alla sottrazione allusiva. E’ curioso anche il suo costante rapporto con il cinema italiano. Molto legato alle proprie origini, Borgnine fece visita al nostro cinema spesso nelle vesti della star hollywoodiana in prestito per dar lustro, da protagonista, a opere più o meno adeguate al suo peso artistico. Così, dopo partecipazioni come in Il Giudizio Universale (1961) di Vittorio De Sica e in Il Re di Poggioreale (1961) di Duilio Coletti, lo troviamo anche, molto più tardi, in coppia con Terence Hill, nella commedia fantastica Poliziotto Superpiù (1980) di Sergio Corbucci, scimmiottatura casereccia di cliché commerciali a stelle e strisce. Sempre eclettico e brillante, a prescindere da proposte cinematografiche non sempre alla sua altezza.