Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Dopo aver romanzato i sanguinari intrighi di palazzo della dinastia Tudor nella serie omonima che vedeva l’aitante Jonathan Rhys-Meyers vestire i panni del bolso Enrico VIII, Michael Hirst con l’aiuto di Chris Chibnall rispolvera il mito di un giovane re Artù e del suo entourage per creare un prodotto dal piglio avventuroso che cavalca la moda recente delle megaproduzioni televisive ricche di scene truculente e di sesso. L’autore trasforma così la magia del mago Merlino e le insidie della fata Morgana in nuovi complotti sanguinari e pruriginosi. Dove tutto, e non solo i traditori del re, viene tagliato con l’accetta. E la violenza e il sesso se paragonati al recente Il trono di spade sono ben poca cosa. Camelot è una serie che è stata distribuita negli Stati Uniti dal canale televisivo via cavo Starz!, cancellata dopo una sola stagione, suddivisa in dieci episodi e recentemente uscita in Italia per Dall’Angelo Pictures in una edizione DVD speciale a tiratura limitata (1600 copie) e in Blu Ray Disc.
La storia affronta le avventure di re Artù a partire dal suo insediamento a Camelot dopo la scomparsa di suo padre, il malvagio re Uther. Ma il giovane uomo, appoggiato dal potente mago Merlino, deve fare i conti con la sorellastra maggiore Morgana, che si sente di diritto la vera erede del trono e farà di tutto pur di riconquistarlo. Passando per tutte le leggende che contornano quel mito – la spada Excalibur, la passione per la bella Ginevra, etc. – Hirst tenta come con la sua serie precedente, The Tudors, e quella successiva, The Borgias, di sottolineare le barbarie e le crudeltà di regni che hanno avuto molto poco di leggendario se non il desiderio atavico di potere e crudeltà. Ma a differenza del lavoro che lo aveva imposto positivamente al grande pubblico, Hirst stavolta è carente proprio nel suo punto di forza, che era rappresentato da una drammatizzazione che poneva l’accento su una costruzione d’ambiente votata all’ambiguità dei suoi protagonisti e alla verosimiglianza dei loro caratteri. Stavolta, infatti, lo sceneggiatore ci presenta personaggi antitetici privi di sfumature: ad un giovane e impavido Artù, cavaliere senza macchia dotato di saggezza, generosità e spirito di giustizia, si contrappone una Morgana crudele assassina e infida calcolatrice. Non manca una certa misoginia in questa costruzione caratteriale che si acutizza poi nella rappresentazione di una Ginevra piagnucolosa, che si concede al re pur essendo promessa sposa al coraggioso Leontes e non sa decidersi tra i due uomini. Insomma le donne, quando vogliono ottenere qualcosa sono cattive, e quando invece sono buone non hanno spina dorsale, mentre gli uomini sono eroi senza macchia in qualsiasi occasione. Un sottotesto post-femminista che vuole le donne più dure degli uomini o un retaggio anni Cinquanta? Questi difetti narrativi sono poi aggravati da una scelta di cast davvero infelice, a cominciare dal divetto potteriano Jamie Campbell Bower che, nelle vesti di re Artù, oltre alla totale mancanza del physique du role, regala una prova priva di qualsivoglia sfumatura; se esistesse un Razzie anche per la televisione il premio sarebbe suo. Non resta altro da fare che godere dei paesaggi mozzafiato, della splendida e accattivante sigla, di un po’ di scenografie e un po’ di costumi, che a volte però rasentano l’inconsistenza che caratterizza l’intera operazione.