Indagine sull’odierno cinema indipendentea cura di Giovanna Barreca
Al Trento Film Festival abbiamo avuto modo di vedere e di rendere conto di diversi film in cui si analizzava il passaggio traumatico di alcuni luoghi di montagna alla modernità, all’industrializzazione che arrivò dirompente sul territorio italiano negli anni ’50-‘60; di uomini che avevano scelto di lasciare una terra spesso avara nel donare profitti per avvicinarsi alle più facili ricchezze di un lavoro dipendente nelle fabbriche e con esso all’agognato benessere. Nel mockumentary I morti di Alos gli abitanti dell’immaginario piccolo villaggio di Alos, in Sardegna, hanno pagato un prezzo altissimo per tale sogno come riesce a raccontare in modo intenso il regista del film, Daniele Atzeni. Dopo anni di duro lavoro nell’allevamento di pecore – che ogni anno nel freddo inverno raggiunto sulle collina andavano portate a valle in cerca di foraggio e che nelle aride estati morivano di sete – i pastori hanno accettato l’arrivo nella loro valle di un’azienda petrolchimica finanziata dal governo e dalla Regione Sardegna, decidendo quindi di cambiare radicalmente la loro vita e le loro abitudini.
L’odore nella fabbrica era insopportabile e da quattro anni ad Alos avevano smesso di nascere bambini; anche la vita delle donne e delle anziane era cambiata radicalmente perché non c’era più bisogno di continuare a svolgere i lavori manuali di un tempo – il pane, il bucato, la lana. “Ora era arrivato il progresso e tutto si poteva comprare nel centro commerciale accanto alla fabbrica” narra la voice over di Alessandro Valentini che interpreta Antonio Gairo, un internato del centro di salute mentale di Cagliari, aloese nato nel 1942 e unico sopravvissuto quando dalla fabbrica – quattro anni dopo il suo insediamento – uscì una nube chimica che la notte del caldo 4 agosto 1964, entrò in tutte le finestre spalancate del paese uccidendo le sue 1000 anime. “Vi racconto – continua Antonio – in un breve momento di lucidità prima che le tenebre offuschino tutto e io torni ad essere un’ombra tra le ombre che non hanno mai trovato pace”. Ombre che urlano la loro rabbia. Gli aloesi vogliono vendicarsi contro coloro che li hanno ingannati promettendogli felicità e progresso e invece li hanno condotti verso la morte.
Per tutto il documentario possiamo seguire il racconto di Antonio supportato dalle immagini del paese fantasma oggi (girate dal regista in un paese abbandonato per dissesto idrogeologico) e quelle della Sardegna rurale di quasi sessant’anni fa grazie al documentario di Fiorenzo Serra: La mia terra è un’isola. Ci siamo soffermati e abbiamo raccontato nel dettaglio la sinossi perchè crediamo sia l’unico modo per capire a pieno questa storia tra finzione e realtà visto che si tratta di un mockumentary (il villaggio di Alos in realtà non è mai esistito) che offre ottimi spunti per ragionare sul presente del nostro paese dove ci sono pagine oscure che nessuno ha ancora il coraggio di raccontare. Come dice lo stesso Antonio: “Le mie sono immagini che evadono dalla buia prigione del tempo”: questa storia è un pretesto perché si indaghi, tra le nebbie di un paese, le nebbie dell’oblio che avvolge le menti degli italiani drogati dall’idea di un guadagno facile che in realtà ha tolto loro identità, violentando il territorio. Un documentario e allo stesso tempo un percorso etico e civile nella nostra coscienza attraverso una formula affascinante che unisce romanzo gotico ad immagini di repertorio e ad altre attuali. Il film prodotto dalla Araja Film del regista è stato presentato all’importante Short Film Festival di Clermont-Ferrant, al Bellaria Film festival proprio ieri e domani sarà al Festival Cineambiente di Torino.