Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
A cento anni esatti dalla sua tragica fine (la notte fra il 14 e il 15 aprile del 1912), il Titanic continua ad affondare. E sembra non smetterla, tanto che quest’anno oltre ad essere finito in fondo all’oceano in formato 3D per James Cameron replica la sua impresa ben due volte in televisione. È infatti di queste settimane la trasmissione su Raiuno in sei puntate (all’estero suddiviso in dodici) di Titanic – Nascita di una leggenda di Ciaran Donnelly, una sorta di prequel che affronta la storia della costruzione della nave, co-produzione fra Italia, Francia, Canada, Inghilterra e Irlanda, e l’uscita in dvd e blu ray (dal 23 maggio per Dall’Angelo Pictures) della miniserie Titanic di Jon Jones, che invece affronta più tradizionalmente il racconto della sua fine ed è un’altra co-produzione (fra USA, Canada, Ungheria e Inghilterra). Se la prima opera si concentra virtuosamente sui problemi degli operai irlandesi di Belfast, dove il transatlantico fu realizzato, nello scontro storico fra cattolici e protestanti (con intrusione di immigrati italiani per accontentare il pubblico Rai) per finire col diventare però il solito feuilleton televisivo di matrice nostrana, la seconda, scritta dalle mani esperte di Julian Fellowes, che non sono altro che quelle di Gosford Park e Downton Abbey (dove in quest’ultimo l’affondamento del Titanic è proprio il motivo scatenante dell’intera storia), diventa invece racconto della stratificazione sociale dell’epoca.
Il Titanic di Julian Fellowes (e Jon Jones) è una metafora di quella società classista, divisa da scale, porte, piani (proprio come in Downton Abbey e Gosford Park) e ormai al suo declino, che affonda beffardamente proprio andando incontro a quegli Stati Uniti, vessillo di speranza e libertà di un mondo nuovo e diverso dalla stantia Europa. Questo è l’elemento più interessante e meglio sviluppato proprio perché nelle corde dell’autore, anche se ovviamente non raggiunge i livelli delle due opere sopra citate. È dunque il macrotema sociale a reggere tutta la struttura narrativa, l’elemento costante dell’opera, spesso a scapito anche della costruzione dei personaggi, talmente numerosi che alcuni restano necessariamente in superficie, impigliati nei cliché di quello che rappresentano (la nobildonna altera, la cafona arricchita, l’attrice goliardica, la cameriera buona, l’italiano dongiovanni, il fuggiasco per motivi politici). La parte dell’affondamento invece, in montaggio alternato in ciascuno dei quattro episodi così da intrecciare situazioni e storie che vengono riprese e reinserite sotto altre prospettive, risulta molto meno riuscita, non tanto perché inefficace, quanto per una sorta di richiamo troppo costante e fastidioso al lavoro di Cameron. Al contrario di quest’ultimo però, che si soffermava solo nel rapporto fra i due protagonisti, qui la stratificazione di Julian Fellowes diventa corale, universale, capillare. Infatti, negli “scontri” fra prima e terza classe, milionari e contadini, fra inglesi e americani, nobili e nuovi ricchi, fra inglesi e irlandesi, protestanti e cattolici, l’autore introduce la così spesso dimenticata seconda classe che sta nel mezzo, né ricchi né poveri, i cui personaggi si rivelano forse i più interessanti (anche perché viene concesso loro più spazio e in quanto suffragati dalle interpretazioni di Maria Doyle Kennedy e Toby Jones). Fellowes intreccia inoltre ruoli fittizi a quelli reali, così vengono citati i soliti John Jacob Astor, l’inaffondabile Molly Brown, il milionario Guggenheim, il capitano Smith, la diva del muto Dorothy Gibson, che a neanche due mesi dalla tragedia scrisse e interpretò il cortometraggio Saved from the Titanic, che rappresentò il suo addio, a soli 22 anni, dalle scene del cinema. Così, le storielle, i miti e le leggende, che si sono macinati intorno al Titanic e ai suoi protagonisti, ci sono tutti anche stavolta e i difetti classici di una co-produzione non mancano, il senso di già visto pure, ma il tocco magico di Julian Fellowes quando si tratta di analizzare la società di quegli anni e un cast tutto sommato discreto (anche se per una produzione del genere ci si aspettava qualche nome di maggiore spicco) rendono questo eterno déjà-vu godibile.