Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
“La percezione di un luogo complesso, dove c’era tanto da interpretare”. Questa la prima impressione avuta da Michele Trentini e Marco Romano quando i geologi dell’Università di Padova li hanno invitati a visionare del materiale in loro possesso e realizzare un documentario sui terrazzamenti della Valstagna, canale di Brenta, provincia di Vicenza. Ne è nato il documentario Piccola terra, in concorso al Trento film festival. Da subito era chiaro che la montagna nel 2012 non era più quella per la quale combattere descritta nel documentario Fazzoletti di terra di Giuseppe Taffarel nel 1963 (c’era il ritratto della lotta contro un’esistenza dura, contro una terra ostile, “un luogo arido – recita la voce fuori campo – che nega tutto, anche la vita stessa”) che gli autori hanno amato e deciso di utilizzare quasi in toto perché richiamava i primi lavori di De Seta.
La montagna oggi può essere studiata e raccontata come un luogo che ci parla del nostro complesso presente dove come afferma nel film l’immigrato marocchino Aziz: “Abbiamo iniziato a coltivare l’integrazione”. L’uomo ha scelto questa zona per aprire una pizzeria, far nascere e crescere i figli. Per primo ha poi deciso di ‘adottare’ un terrazzamento chiedendolo al comune che deve gestire interi ettari di montagna ormai abbandonati da anni dove i muretti in pietra, senza manutenzione e cura, subiscono dissesti quotidiani. Aziz vuole coltivare la menta marocchina, trapiantare anch’essa altrove perché trovi nuova linfa vitale venendo da terre lontane (bellissime le riprese realizzate in Marocco tra terrazzamenti simili a quelli della Valstagna). Tra i personaggi del passato e quelli del presente, la netta differenza è nell’atteggiamento nei confronti della terra. Vinti da essa i due anziani protagonisti del documentario di Taffarel, pronti a non subire ma ad aprirsi al futuro – anche se alcuni con diffidenza – i nostri contemporanei. Tale atteggiamento apre uno spazio importante di confronto che è la base di ogni futura crescita e di un discorso di democrazia partecipata che emerge netto nel documentario.
Trentini e Romano hanno deciso quindi di fare un discorso antropologico fino ad allargarlo al ritratto di una montagna che torna a vivere, grazie a italiani che coltivano la terra dei loro nonni riappropriandosi così di una parte della propria identità e che riescono a vedere nella terra lo strumento per smettere di distruggere il territorio, al contrario potenziandolo e condividendone la bellezza (si veda il caso di un uomo che per anni ha lavorato sugli escavatori e poi decide di andare in pensione anticipatamente, acquistare un terrero proprio sulla montagna dirimpetto alla cava per aprire un agriturismo). E chi, pur avendo lavoro e casa in valle, torna in alta quota perché vuole sentire e provare la soddisfazione personale che comporta conquistare la montagna metro per metro. Quindi memoria preziosa da coltivare e nuovi italiani che attraverso la terra, vogliono sentirsi nuovamente a casa e donarsi, dimostrando la loro riconoscenza per un Paese che gli ha offerto un futuro. In tutto questo, visto che i registi sono capaci di una sintesi realistica a 360°, non mancano i tratteggi sui migranti non interessati all’integrazione, così come dell’italiano ostile al forestiero di turno perché teme non abbia l’attenzione adeguata, quella che la terra merita.
Da Cheyenne, Trent’anni abbiamo iniziato ad apprezzare il linguaggio fresco e capace di fare un’ottima sintesi di Michele Trentini e Marco Romano. Qui, più che nel film che ce li ha fatti conoscere, il discorso di partenza era più rischioso perché più articolato e i due registi sono riusciti a dargli un ordine, tenendo presenti poche e corrette linee guida. Ovviamente obiettivo principale di Piccola terra è veicolare nel modo più chiaro possibile un discorso, il tutto però è finalizzato a un ritratto anche ironico e divertente su quello che poi sono i pregi e i difetti del nostro paese e del suo rapporto sano/malato con l’altro. La presenza della macchina è quasi impercettibile tanto è forte l’armonia che riescono a creare tra immagini di ieri e di oggi e le diverse storie e i luoghi di una stessa montagna.