In un’edizione del Festival del cinema europeo di Lecce dove il leit-motiv del concorso è dato finora da drammatiche storie al femminile, arriva una conferma da Vacuum di Giorgio Cugno, unico film italiano presente nel concorso lungometraggi. Il regista torinese, alla sua opera prima di finzione, dopo aver lavorato sul documentario per anni, non abbandona i canoni e l’immaginario del cinema del reale nel condurre lo spettatore nel dramma di Arianna, giovane ragazza sposata con Milo (spesso assente per problemi di lavoro), che – all’inizio del film – partorisce Mattia. L’accettazione della maternità, la trasformazione del suo corpo in riserva e fonte di nutrimento del figlio, poche parole dette al neonato, gesti ripetitivi – tutti dedicati a lui – che appaiono privi di intenzione ma solo svolti per inerzia; tutto questo definisce lo stato emotivo della giovane, come i diversi fuori fuoco di sue soggettive. Il termine medico è depressione post-parto. Scatta nella donna un atteggiamento di totale spaesamento e chiusura nei confronti di tutti gli amici e parenti tenuti fuori dalla casa per escluderli dal microcosmo formato da lei e dal bambino.
Il regista ci racconta tutto questo attraverso lunghi piani sequenza e riprese molto strette sul volto della ragazza e sugli oggetti che tocca (dettagli del tiralatte, delle bende, del pannolino, del biberon). Anche se non c’è mai l’enfatizzazione delle situazioni, non un urlo, non un gesto di ribellione, l’animo e il corpo sanguinante di Arianna (piccola ferita a un dito, poi al seno e a una gengiva) sono i primi sintomi fisici del profondo disagio di una donna prigioniera di una situazione che non vuole più sopportare, in una casa che non vuole più perché la sta soffocando. E quando tutto il mondo ruota intorno a qualcosa che sta ‘togliendo vita’, l’istinto naturale è quello di ‘liberarsi’ di quel tutto, proprio come farà la madre.
Cugno ha indagato questo periodo così particolare dalla vita di una donna ascoltando diverse storie di depressione post-parto pensando inizialmente di farne un documentario. Poi però per rispetto di quel dolore, ne ha trasfigurato i racconti come elementi utili per la scrittura delle sceneggiatura di questo film. Cugno lavora sul materiale umano raccolto e rende credibile ogni situazione lavorando sempre in sottrazione, levando ogni sorta di sovrastruttura per lasciare in campo solo l’animo ferito della sua protagonista, che ad alcuni spettatori forse è apparso cinico. Fondamentale il rapporto che il regista ha creato con lo spazio, le pareti della casa, la finestra, la culla accanto alla fonte di luce, lo specchio del bagno, visti sempre in soggettive strettissime come se Arianna non fosse in grado, in quel momento della sua vita, di aprirsi a qualcosa che non stesse nell’inquadratura stretta del suo corpo-fabbrica di cibo, della sua mano che tiene il tiralatte, della sua mano che cambia un pannolino. Intensa l’interpretazione dell’attrice teatrale Simonetta Ainardi, che – come ha raccontato il regista – sin dai primi provini ha dimostrato di portare con sé il necessario bagaglio emotivo indispensabile per delineare questo personaggio.