Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Dalla visione della totalità dei corti in concorso nella seconda edizione del Ca’ Foscari Short Film Festival possiamo affermare che emerge preponderante la qualità delle scuole tedesche e francesi che hanno sicuramente deciso di investire molto in termini anche economici nei nuovi talenti delle loro cinematografie. Citavamo ieri due lavori tedeschi interessanti e oggi ne aggiungiamo altri tre: Sonor di Levin Peter che sicuramente piacerebbe molto a Werner Herzog per lo stile minimale e l’indagine che l’autore compie nell’universo dei suoni. Protagonisti una ragazza sorda e un giovane coetaneo, due universi percettivi diversi che hanno la voglia e la curiosità di confrontarsi. Was uns zusteht di Thomas A. Szabò dove, attraverso un thriller psicologico, entriamo nella vita di un uomo che crede di non avere più affetti e certezze economico-sociali e pensa a un gesto disperato prima di trovarsi coinvolto in qualcosa di altrettanto estremo. Medesima violenza distruttiva in due storie di vendetta: quella in Pavels Letzter schuss di Christoph Heimer dove l’esasperazione dei sentimenti porterà alla morte di tutti i soggetti coinvolti e Sanzaru di Roy Ng Wee Kiat (Singapore) dove un giovane decide di uccidere gli assassini dei genitori. Dalla Francia arrivano invece i gesti, le pulsioni e il rapporto con gli altri in Ordinary compulsions di Vincent Ciciliato che concentra tutta la sua storia in un teatro di posa. Attraverso dissolvenze incrociate impercettibili, l’autore riesce a far convivere cinque individui, ognuno dei quali compie azioni diverse nello stesso riquadro dell’inquadratura.
L’italiano Giampietro Balia, diplomandosi alla scuola estone ha deciso di raccontare nel suo Ainult meie kolm un microcosmo familiare dal quale far emergere un universo di menzogne: la madre naturale dei due protagonisti, scappata anni prima, torna con i suoi colori e la sua vivacità, ma ancora pronta a scappare dalla vita, incapace di prendersi le sue responsabilità. Un cielo rosso sangue (unica nota di colore in un film in bianco e nero) invece ci guida in un dramma familiare di altro genere in Je jour où le fils de Rainer s’est moyè di Aurélien Vernhes-Lermusiaux. Cuore della narrazione gli abitanti di un piccolo villaggio sconvolto dalla morte di un giovane che devono comunicare l’accaduto ai genitori. Come Silent river (segnalato ieri) anche questo piccolo grande film francese gioca su un’ottima regia e soprattutto su una messa in scena che lascia lo spettatore col fiato sospeso a partire dal primo fotogramma. Violenza fisica in Lucky Seven di Claudia Heindel che porta lo spettatore nella periferia irlandese dove tre ragazzi allo sbando, sullo sfondo di una natura desolata e desolante, scaricano la loro rabbia e la loro incapacità di comunicare contro cose e persone. Violenza psicologica unita all’immagine di sé invece nel lirico Made up di Dionel Desuzer. Qui, attraverso una messa in scena minimale, entriamo nell’universo di una ex miss, pronta a nascondere sotto strati e strati di trucco l’immagine riflessa nello specchio che, col passare degli anni, non riesce più ad accettare. Con l’identità si confronta anche Logavel Balakrishnan da Singapore con First breath after coma: Fie, travestito fragile e confuso, ha una visione distorta dei rapporti umani e fraintende le attenzioni puramente artistiche di Daniel che la dirige in una pièce teatrale. Fasciata in un bellissimo abito bianco da sposa Fie compie la sua vendetta e inizia il suo viaggio personale. Identico vestito ma tutt’altra atmosfera nella commedia australiana di Brendan Sweeney dal titolo Awful wedden wife. Nel giorno più importante della sua vita, la giovane sposa sta per recarsi in chiesa quando viene drogata dalla madre che vuole impedire le nozze e spingerla di nuovo tra le braccia del suo primo strambo fidanzato.
Commedia anche dalla Svizzera dove Lukas Tiberio Kloppenstein e Giovanni Occhuzzi in Be Natural affrontano in chiave ironica la crisi finanziaria globale: per “salvarsi” bisogna tornare alle origini. Due invece i mokumentary selezionati: No estan juntos di Lucia Agosta, sceneggiatrice e regista argentina che, giocando tutto sull’umorismo, ha messo in scena le dichiarazioni/interviste fatte ad amici e parenti di Tomas e Lucia, due giovani innamorati, lasciatisi improvvisamente. Eliyahu Zigdon in Lavyan shel ahava (Israele) invece ripercorre la ‘storia’ di It girl di Elinor Glyn, racconto trasposto al cinema con protagonista Clara Bow e nel 2011 pièce teatrale. Israelo/palestinese è invece il corto-documentario Susya di Dani Rosemberg e Yoav Gross che ci conduce nei paradossi dell’occupazione: una famiglia palestinese può rivedere la propria casa solo acquistando un biglietto d’ingresso da turista per quello che oggi è diventato un sito archeologico.
Amore adolescenziale dall’India e da Israele: Glumohar di Arati Kadav ha come protagonista la variopinta zona rurale del paese dove un giovane lattaio si innamora di una parente in visita di una sua cliente. Nei colori accesi si esplicano i turbamenti del giovane che troverà il coraggio di lasciare solamente un fiore sulla finestra dell’amata. La poesia parte da una vecchia leggenda invece in Samudra, realizzato dall’italiano Federico Del Monte per una scuola del paese ancora così segnato dai monsoni. Il rapporto tra coetanei, amore e malattia, attraverso toni realistici e sinceri nell’autobiografico Placebo di Itamar Moreno. E concludiamo con l’animazione della grande scuola russa – ripresa da Aleksandra Shadrina in Shtormovoje Preduprezhdeniye: storia d’amore tra lettere e gabbiani dispettosi – e da quella tedesca in Jelly Jeff di Jacob Frey. Qui, attraverso la storia di una piccola e simpatica medusa – realizzata in computer grafica- l’autore ci manda dei messaggi e dei moniti sui rischi che facciamo correre al nostro ecosistema.
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