Per film tragicamente imperfetti spesso si parla di “vorrei-ma-non-posso”. C’è un’altra categoria, più rara ma forse un po’ più grave: il “potrei-ma-non-voglio”. Sì, perché Take Me Home Tonight avrebbe buone premesse per sollevarsi dallo scadimento generale della commedia sentimentale americana, e anche buone credenziali almeno in sede di sceneggiatura. E mostrerebbe anche intenzioni vagamente ambiziose, che tuttavia, per chiara ed evidente scelta “autoriale”, si fermano sempre un passo prima dell’affondo decisivo. Il regista Michael Dowse non ha mostrato finora grandissime doti, ma i fratelli-sceneggiatori Jackie e Jeff Filgo non sono così terribili come molti altri responsabili della deriva survoltata e preconfezionata di tanta commedia mainstream a stelle e strisce. E quantomeno va loro riconosciuto il tentativo di tenersi lontani dal demenziale a buonissimo mercato, rasentando anzi in più momenti una ben azzeccata malinconia sulla fine della gioventù e di tutta un’epoca. Non è la prima volta che la commedia americana si confronta con gli anni ’80, ma anche in questo caso, come finora è sempre accaduto, il quadro rimane sfocato, sfuggente, ancorato per lo più a un campionario epocale di cui si ripercorrono i più evidenti e scenografici luoghi comuni. Dal recupero fighetto in colonna sonora (con pezzi dei Buggles, Falco, gli Opus, Kim Carnes) alle pettinature femminili traboccanti di lacca spray stile “Dynasty”, fino alle spalline imbottite e le giacche portate a mezze maniche con i mocassini.
Quel che c’è di nuovo, e che sulle prime fa ben sperare, è un tentativo di sguardo sulla fine del disimpegno edonistico, generazionale e individuale, con buona scelta di confinare tutto il racconto in una lunga notte di conti col passato e maturazioni. I modelli sono alti (viene in mente il leggendario American Graffiti di George Lucas), ma Dowse e i fratelli Filgo steccano clamorosamente sul versante comico. Che non funziona mai, anche a causa dell’immancabile “amico goffo del protagonista”, incarnato da un pochissimo divertente Dan Fogler. Ne vien fuori un ibrido, talvolta credibile, più spesso insignificante, anche perché troppo affidato alle deboli spalle di protagonista di Topher Grace. Che sfoggia tutto un suo repertorio di faccette e smorfiette da serial televisivo per teen-ager, irritante e poco accattivante. Alla resa dei conti gli autori sembrano più affezionati agli anni ’80 che dominati dal disincanto. E soprattutto legati con convinzione ai profili più deleteri del decennio, come l’evidente esaltazione finale del tipico “atto gratuito” maschile come dimostrazione di forza e rito d’iniziazione alla vita adulta. E, per il buon peso, il padre poliziotto, impersonato da una vera icona anni ’80 (il redivivo Michael Biehn di Terminator), sciorina una lezione di vita tutta basata sul mito americano (non solo anni ’80) della vita come sfida, utilizzando una serie di metafore sulle armi da fuoco che danno un po’ i brividi. Se ne poteva cavare qualcosa di meglio, e gli autori erano in grado di farlo. Potrei-ma-non-voglio.
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