Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Quattro ragazzi del Queens nelle maglie di Hollywood: Vincent Chase è un giovane attore di grande successo e di belle speranze, i suoi migliori amici d’infanzia Eric e Turtle sono rispettivamente il suo manager e il suo tuttofare, il fratello maggiore Johnny Drama è un attore al capolinea che negli anni Novanta era popolare per la serie Viking Quest (il caso vuole che sia interpretato da Kevin Dillon, fratello meno “popolare” del ragazzo d’oro degli anni Ottanta, Matt). E poi c’è Ari Gold, il maschilista e omofobo agente di Vince, che ha un segretario gay, Lloyd. Prodotta da Mark Wahlberg e creata da Doug Ellin, che si ispira alla vita e alla carriera “riveduta e corretta” dello stesso Wahlberg, Entourage vorrebbe essere il racconto goliardico di un gruppo di amici, che si ritrovano in un mondo lontano da quello nel quale sono cresciuti, ma alla fine si rivela una parabola buonista di vite e luoghi che di ordinario non hanno nulla se non la mancanza di carattere.
Hollywood raccontata da Hollywood è tutt’altro che una novità, ma qui non è certo quella crudele di Billy Wilder in Viale del tramonto. Tutt’altro. Dietro le meschinità, i doppi giochi e i meccanismi crudeli dell’industria più patinata al mondo, secondo Doug Ellin, si nascondono l’integrità e un cuore d’oro, come quelli di Vince e Ari (quest’ultimo ad esempio è sì un bastardo, ma non tradirebbe mai sua moglie!), e un luogo dove chiunque può diventare qualcuno (e il nepotismo che fine ha fatto?). Ma Entourage, più che uno spaccato sociale si rivela un prodotto languidamente auto-celebrativo – quindi ipocrita – dove a dominare sono le storie di questi quattro sbruffoncelli; inoltre il povero piccolo Chase non possiede assolutamente i classici difetti delle star, non è egocentrico o egoista, ma generoso e buono, anzi molto più dei personaggi che gli ruotano intorno o dei suoi colleghi, che spesso compaiono in simpatici camei interpretando se stessi. Un “gioco”, questo, piuttosto popolare, specie nelle sitcom, dove attori si prestano ad interpretare se stessi in ruoli spesso auto-parodici (vedasi in assoluto l’Episodes con un Matt LeBlanc che interpreta se stesso), che in questo caso vede nomi come Jessica Alba, Gary Busey, Luke Wilson, James Cameron, Dennis Hopper, Gus Van Sant, Martin Scorsese comparire nella vita del nostro protagonista.
Definito l’erede maschile di Sex and the City (e infatti anche di Entourage ne faranno un film come è successo con la serie di Darren Star), con cui condivide l’aspetto della patina modaiola, una certa forma di maschilismo, l’ossessione per la “città-protagonista”, in questo caso Los Angeles, ma soprattutto il potere della HBO che lo realizza con lo stesso tono leggero, Entourage ha dalla sua parte, al contrario, una certa verosimiglianza nella descrizione del sottobosco hollywoodiano, fra attori di quart’ordine e agenti nevrotici, ottimi interpreti, fra cui spiccano Kevin Dillon e in particolare Jeremy Piven, il “crudele” Ari Gold. Ma a lungo andare il meccanismo narrativo scade nella ripetitività. Passata in Italia piuttosto in sordina e distribuita in maniera discontinua su Sky e in questi mesi per la prima volta in chiaro su Rai 4, la serie è stata un successo soprattutto in patria dove si è conclusa la scorsa estate alla sua ottava stagione e dopo aver ricevuto per anni una pioggia di premi, nonché il non indifferente apprezzamento del presidente degli Stati Uniti in carica, Barack Obama, che ha promesso, di questi giorni la notizia, che parteciperà con un cameo al film di prossima realizzazione.