John Carter

07/03/12 - Il romanzo di Edgar Rice Burroughs arriva in una versione Disney, diretta da Andrew Stanton senza riuscire a trasmettere la giusta passione.

Sono trascorsi 100 anni circa dal ciclo di romanzi di Edgar Rice Burroughs su John Carter di Marte, personaggio che ha ispirato George Lucas, Spielberg, Cameron. Per portarlo al cinema la prima volta, col film John Carter, la Disney ha scelto Andrew Stanton (2 Oscar vinti per Alla ricerca di Nemo e Wall-E) al primo tentativo con il live-action. Quello che però non è riuscito alla casa di produzione è restituirne la magia. Tutto parte dal diario in cui John racconta la fantastica avventura che dalla Virginia lo ha portato a Barsoom, un pianeta dominato da una guerra tra razze e dall’invasione di un cattivo che vuole soggiogare l’intero pianeta. Prima da schiavo, poi da salvatore, John dovrà salvare il pianeta e conquistare la bella principessa. Trama basilare di ogni racconto fantasy o fantascientifico che si rispetti, scritta dal regista con Mark Andrews e Michael Chabon (cosa ci faccia un premio Pulitzer è fonte di mistero), per un’avventura immaginifica che mescola il romanzo storico e il western con tutto l’immaginario che da 100 anni ha riempito la fantascienza al cinema.

Operazione legittima, visto che il personaggio di Carter è seminale per un certo tipo di narrativa letteraria o cinematografica, tanto più che lo script nel raccontare una storia di guerra tra razze, di occupazioni, di ricerca di un potere che viene dal sottosuolo e che può far dominare il mondo (petrolio?), sfiora la metafora politica per abbracciare un pubblico anche più adulto. Il vero problema del film di Stanton è che, nell’intessere un racconto più ampio della sua fabula, relativo a una mitologia di Barsoom (che scopriremo essere Marte), fa molta confusione rischiando di perdere per strada gli spettatori meno accorti o attenti. E’ discutibile poi che la sceneggiatura faccia passare il pacifismo di John per egoismo (con successiva “presa di coscienza”) o che la regia giochi con pathos e tentazioni epiche poco giustificate, ma il vero limite del film sta nel rimasticare un immaginario già digerito senza la leggerezza per reinventarlo: se Carter può quasi volare, grazie alla differente gravità, il film resta pesantemente ancorato, senza senso dell’avventura che non siano i molteplici effetti speciali, sprecando alcune belle idee scenografiche, come l’interno del tempio di Issus, con umorismo di non pregiata fattura (“Hai 4 mani, almeno dammene una” si sente dire durante una battaglia). John Carter quindi non è altro che un kolossal per ragazzi che non riesce a esplodere, troppo attento a ricordare Star Wars persino nelle musiche di Michael Giacchino, che a segnare la fantasia dello spettatore: l’esatto contrario di quanto accadde, un secolo fa, con la scrittura di Rice Burroughs.

EMANUELE RAUCO

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