Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
L’intricato mondo della politica statunitense rivive in The Good Wife attraverso la prospettiva della moglie, generalmente relegata al ruolo di figura iconografica e statuaria. Ma Alicia Florrick, quarantenne sposata a Peter, un procuratore democratico di Chicago, due figli adolescenti, una casa confortevole in un quartiere suburbano, vede infrangere tutti i suoi sogni quando il coniuge viene arrestato per corruzione e il suo orgoglio ferito quando scopre che nel caso sono coinvolte anche delle prostitute con le quali l’uomo l’ha tradita. La donna, orgogliosa e glaciale, impacchetta casa e figli, si trasferisce in un appartamento più piccolo e ricomincia, per necessità economiche, a lavorare come avvocato, lavoro che aveva abbandonato per fare da moglie e da madre. Pur mantenendo agli occhi del mondo il suo ruolo, Alicia è combattuta fra un perdono difficile da concedere e la passione (platonica e forse mai sopita) per Will Gardner, amico dei tempi dell’università e ora socio anziano dello studio per il quale lavora.
Ormai alla terza stagione e seguendo la storica lezione di David Kelley con The Practice, The Good Wife (trasmessa in Italia da Raidue) è diventata una garanzia narrativa dividendosi fra una struttura aperta, che segue la storyline politica, le vicende familiari e lavorative di Alicia, e chiusa, i casi legali che la donna segue volta per volta. Ma la serie, creata da Robert e Michelle King, non è certo a compartimenti stagni perché spesso le due linee del racconto si incontrano mostrando il lato oscuro, bizzarro, convenzionale del mondo giudiziario, sempre cucito a doppio strato con quello politico. La serie non può non far tornare alla mente numerosi casi di corruzione politica americana, l’ossessione mediatica (emergono anche ottime riflessioni nel rapporto fra informazione, nuovi media e privacy) nonché lo storico impeachment di Bill Clinton nel caso di Monica Lewinsky. Gli interni lussuosi degli studi legali, i rapporti che si intrecciano fra i protagonisti, regalano il ritratto implacabile di una realtà marmorea dove l’impenetrabilità della bella protagonista (la ritrovata Julianna Margulies di ER), eticamente incorruttibile, è sempre messa a dura prova da un dualismo: ciò che rappresenta agli occhi degli altri, il cliché della moglie del politico tradita, e quello che invece traspare, una donna forte, pur fragile nella sua intimità, nel contesto di un mondo prima corollario esclusivamente maschile ed ora sempre più femminile, dove queste ultime nel bene e nel male non sono poi differenti dai colleghi del sesso opposto. The Good Wife è un prodotto privo di slanci, ma perfettamente cesellato nella sua forma e nella sostanza del racconto e dei personaggi (e degli interpreti, un ensemble cast notevole). Un rispecchiamento della realtà – meschina, corruttibile e di una violenza verbale fatta di codici, postille, parole fredde – che si contrappone a un silenzio composto di sentimenti dolorosamente inespressi – quelli di Alicia per Will e quelli di Will per Alicia, sottaciuti ed evidenti solo attraverso la forza dei loro sguardi; per un mondo fatto di contraddizioni emotive dove tutto quello che conta è l’apparenza. Per mantenere quella maschera d’argilla che prima o poi è destinata a cadere. E da questo neanche la nostra Alicia può fuggire.