Dal nostro inviato RAFFAELE MEALE
Ascolta la conferenza stampa del film dal Festival di Berlino.
Un film come Aujourd’hui (Tey il titolo originale senegalese) di Alain Gomis, presentato in concorso alla sessantaduesima edizione della Berlinale, permette di aprire il fianco a una riflessione sull’ibridazione tra finzione scenica e antropologia culturale, e sulle responsabilità e i rischi che essa comporta. Film all’apparenza spudoratamente anti-narrativo, aperto da un rito familiare che prevede il sacrificio di un membro del consesso per permettere la sopravvivenza del gruppo e irrobustito qua e là da digressioni sulla vita politica del Senegal contemporaneo, Aujourd’hui vorrebbe con ogni probabilità concedersi il lusso di portare in scena la metafora della storia recente della nazione africana e, più in generale, della diaspora che ha portato gli abitanti del cosiddetto Terzo Mondo a cercare (nuova) patria in Occidente. Una tematica di ardua rappresentazione cinematografica, resa ancor meno intellegibile dalla scelta di Gomis di intraprendere sempre la via più impervia. Già autore degli apprezzati Ahmed e Andalucia, il cineasta di origine senegalese (ma parigino di nascita ed educazione) decide di far procedere la narrazione solamente per ellissi spaziali e temporali. Sachté, tornato a casa dopo anni di studio passati negli Stati Uniti d’America, si avvia verso il martirio prestabilito attraversando di pari passo la storia del proprio paese e quella personale: ne viene fuori un viaggio a ritroso nella memoria che di quando in quando si fa anche emotivamente coinvolgente, ma che per la maggior parte del tempo lascia freddi, distaccato com’è il pubblico dai riferimenti culturali e dalle metafore che prendono corpo sullo schermo.
Una sensazione acuita anche dalla messa in scena di Gomis, visivamente troppo spoglia per riuscire a donare un reale senso simbolico alle azioni e alle situazioni descritte: si prenda per esempio la lunga sequenza di Sachté che, dopo essere stato scelto come vittima sacrificale, si avvia per le strade della città attorniato da una folla festante. Sarebbe bastato ragionare meglio sul montaggio per costruire una sequenza appassionante, degna di un crescendo emotivo e passionale senza dubbio sincero. Invece il regista opta per una serie di inquadrature basiche, persino prive della necessaria profondità di campo: un’opzione che tornerà più volte nel corso della visione, anche per via di una ciclicità degli eventi messi in scena che sfiora la reiterazione fine a se stessa. Lavorando sempre di sottrazione Gomis finisce per indebolire ulteriormente un impasto visionario che avrebbe potuto quantomeno giustificare gli incomprensibili voli pindarici del protagonista. A meno che la morale non si riduca solo alla scontata metafora della partenza come morte, abbandono delle tradizioni e delle memorie di una vita. Se così fosse l’impressione di essere stati presi in giro per un’ora e mezza da Gomis si farebbe sempre più concreta…
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