Dal nostro inviato Raffaele Meale
Alzi la mano chi si sarebbe mai aspettato che l’esordio alla regia di Angelina Jolie avrebbe raccontato i giorni terribili della guerra fratricida di Bosnia, combattuta su opposti schieramenti da serbi, bosgnacchi e croati. In the Land of Blood and Honey, prima sortita dietro la macchina da presa per la Lara Croft cinematografica, torna a ragionare, a diciassette anni dalla fine del conflitto armato, sulle violenze e le sopraffazioni compiute a Sarajevo e dintorni. Presentato come evento speciale alla 62esima edizione del Festival Internazionale del Film di Berlino, racconta la storia di Ajla, bosniaca musulmana che viene strappata all’affetto della sorella dall’esercito serbo in un rastrellamento insieme ad altre donne. Nel luogo di prigionia in cui è condotta, e dove le donne sono sfruttate come oggetti sessuali, scopre che il capitano delle truppe è l’uomo di cui si era innamorata durante un concerto, quando la guerra non era ancora iniziata. Inizia qui un difficile rapporto sentimentale tra i due, squilibrato e malsano.
Contestualmente all’abbandono da parte della Jolie della visione collettiva della guerra per concentrarsi sul kammerspiel ai limiti del masochistico che lega Ajla e Danijel, iniziano a farsi evidenti anche le crepe strutturali che minano la saldezza di un’operazione come In the Land of Blood and Honey. La guerra di Bosnia appare via via sempre più un pretesto per infilare il coltello nelle piaghe di un melodramma amoroso sciatto e già visto, con ectoplasmi della Cavani de Il portiere di notte (1974) a far capolino da dietro ogni angolo; la neo-regista, d’altro canto, non sembra possedere la maturità di sguardo per affrontare una serie di tematiche così delicate. La guerra è raccontata con occhio sinceramente indignato ma poco competente, al punto da eliminare in maniera completa dalla sceneggiatura qualsiasi riferimento alla componente croata del conflitto, riducendo il tutto a una questione tra serbi e bosgnacchi legata alla matrice religiosa dei diversi ceppi etnici.
Se è apprezzabile la volontà di riconoscere a Tito la capacità di aver unito in maniera salda un gruppo di popolazioni apparentemente poco conciliabili tra loro, non si può non storcere il naso di fronte a una semplificazione della guerra così schematica. Anche la sceneggiatura, scritta dalla stessa Jolie, presenta buchi macroscopici: su tutti valga l’esempio del personaggio di Lejla, la sorella della protagonista, che dopo essere stato introdotto fin dall’inizio nella vicenda, con il progredire della pellicola acquista un valore puramente marginale, salvo essere utilizzato in maniera capillare a ogni svolta della narrazione (la fuga dalla prigione nella foresta, il pre-finale). Segnali inequivocabili di una meccanicità della scrittura che appiattisce le psicologie dei personaggi – davvero difficile comprendere le sinapsi che guidano i ragionamenti di Ajla – per assoggettarle al fascino (indiscreto) della storia d’amore e sopraffazione. Una storia che, nonostante la buona volontà dei due attori protagonisti Zana Marjanović e Goran Kostić, non riesce ad appassionare, e si distingue solo ed esclusivamente per l’altalena tra violenza e dolcezza (i blood e honey del titolo) che rappresenta il vero nucleo di interesse della Jolie. Così, di un conflitto che ha fatto quasi centomila vittime e ha sconvolto la quiete dei Balcani, non resta che l’amore folle e disturbato di un capitano che non ama la guerra per un’aspirante pittrice dal viso angelico. Un po’ poco…
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