Elle s’appelait Sarah è il titolo originale del libro di Tatiana De Rosnay e del film che ne è stato tratto, diretto da Gilles Paquet-Brenner in uscita per l’Italia il 13 gennaio con Lucky Red, proprio a ridosso delle commemorazioni per la Giornata della Memoria. “Si chiamava Sarah, non aveva otto anni. La sua vita era dolcezza, sogni e nuvole bianche. Ma altre persone avevano deciso che non dovesse essere così” sono i versi di una canzone scritta da Jean-Jacques Goldman che hanno ispirato l’autrice. La lirica risale al 1982 e fu un primo timido tentativo di raccontare di una bimba ebrea condannata a perdere la sua infanzia perché la Francia di Vichy obbedì agli ordini di Hitler e il 16 e il 17 luglio 1942 diede avvio a un feroce rastrellamento di massa e all’internamento nel Vèlodrome d’Hiver di 8000 dei 13000 arrestati, rinchiusi per cinque giorni senza cibo, acqua e in condizioni igeniche e sanitarie pessime, prima di essere condannati ai lagher nazisti. Solo nel 1995 il presidente francese Jacques Chirac chiese scusa per quei giorni che infamarono la Francia, chiedendo “Zakhor, al tichkah”, ovvero “ricorda, non dimenticare mai” a ogni suo concittadino. Solo un paio di anni fa, il film La rafle di Rose Bosch (tradotto malamente in Vento di primavera per l’Italia) raccontò quei giorni, deludendo il pubblico francese soprattutto perché i fatti, descritti come una fiaba retorica con i buoni e i cattivi, non permettevano agli spettatori di sentirsi coinvolti. Tatiana De Rosnay invece trova la forma narrativa accattivante del giallo di finzione, con enigma e scioglimento che appassiona i lettori, creando un efficace collegamento col presente che permette l’identificazione. La prima parte a due voci alternate, differenziate per capitoli con caratteri di stampa diversi, permette di seguire contemporaneamente le vicende della piccola Sara, bambina ebrea costretta dalla polizia a lasciare la sua casa nella notte del 16 luglio ma che pur nella concitazione, riesce a nascondere il fratellino Michel nell’armadio della loro stanza con un libro di fiabe, una torcia e una brocca d’acqua, facendogli promettere di non muoversi perché lei sarebbe tornata presto a riprenderlo. A Sara incarcerata nel Velodromo e poi in un campo di prigionia temporaneo dal quale scapperà per mantenere la promessa, si affianca la storia della giornalista–giornalista (cit. di Marco Risi, per definire il giornalista impegnato che cerca in tutti i modi di affermare la verità) che nel 2010 indaga su quei tragici giorni e parallelamente percorrerà a ritroso anche la storia della sua famiglia.
Lunga ma necessaria premessa per spiegare tutto quello che ha portato il giovane regista e sceneggiatore Gilles Paquet-Brenner (classe 1974) a voler trasporre il romanzo e raccontare senza retorica e con maggior efficacia di La rafle una pagina di storia del Novecento e della sua nazione. Il pubblico francese ha accolto il tentativo con grandi applausi anche perché amò molto il romanzo dalla narrazione mai scontata (tranne il finale un po’ da soap opera) ma soprattutto perché il film è affascinante, ha una regia robusta e si poggia sulle spalle di una grandissima attrice, Kristin Scott Thomas (qui in stato di grazia), in grado di essere appassionata, credibile, come quando miscela il carattere americano con quello europeo, e concreta al punto giusto per svelare a un collega: “Non ci sono foto e filmati perchè non furono i tedeschi ma i francesi”. Fedele in quasi tutto al romanzo, per adattare le pagine in immagini Paquet-Brenner (che non risparmia neanche una battuta ricca di amarezza quando la Scott Thomas torna per le strade del quartiere ebraico oggi e nota che al posto del Vèlodrome d’Hiver c’è il palazzo del Ministero dell’interno) ha bisogno della luce piena e calda di una mattina d’estate per raccontare Sara e Michel a casa (non la notte come nel romanzo) prima del rastrellamento per poi guidare in maniera più efficace lo spettatore nel buio dell’incubo emotivo di Sara al quale regala un altro spiragio di luce, solo quando finalmente libera e piena di speranze corre in un campo di grano maturo. Attraverso la giornalista Julia Jarmond, il regista francese che poggia su Sara tutto il peso della colpa, permette a ogni spettatore di guardare il passato attraverso una prospettiva attuale, senza il solito e ormai un po’ patetico “Ma come è potuto succedere?” ma con una riflessione più critica, perché come fa notare la stessa giornalista, nessuno può sapere come ci saremmo comportati noi in quello stesso frangente; olocausti di diversa entità ne sono seguiti diversi nel Novecento e quell’iniziale tacito silenzio dell’America, della Francia, delle Nazioni Unite si è ripetuto. Il primo piano di Sara davanti alla porta che chiede scusa al fratellino Michel non sarà immagine facile da dimenticare, come quello di Julia nell’appartamento di casa sua a osservare la parete, perché porta con sé un carico tragico di pietà e di dolore, senza mai diventare inutilmente patetico. La chiave di Sara è finalmente un vero film sulla memoria perché riesce a far emergere tutta la mancanza di senso dell’Olocausto.
Vai alla SCHEDA FILM