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Sullo sfondo degli anni Venti, fra soli cocenti medio-orientali e il desiderio di un progresso per il suo popolo, l’emiro Nesib (Antonio Banderas), capo di Hobeika, stringe un’alleanza malefica che cambierà quei luoghi per sempre. In realtà, l’uomo vuole solo arricchirsi con la vendita agli americani del petrolio che si trova nella cosiddetta “Striscia gialla”, che in base al patto fatto anni prima con il suo storico nemico Amar, costretto, per mantenere la pace, a dare all’altro i suoi due figli da crescere, è territorio di nessuno. La guerra è così inevitabile, ma sarà Auda, il figlio più timido e acculturato di Amar a rivendicare tutti i valori del suo popolo trasformandosi in un capo saggio, ma dal pugno di ferro. Jean-Jacques Annaud è autore di un cinema privo d’identità, che ottiene attraverso una confezione patinata e una sceneggiatura priva di consistenza dietro cui si nasconde un epos falso fatto di sfondi internazionali in momenti storici precisi e violenti, vedasi L’amante, Sette anni in Tibet, Il nemico alle porte. Il risultato è un cinema esotico che ammicca all’Oriente, ma si affossa in una demagogia occidentalista.
Annaud alla fine ha sempre realizzato opere che esplorano identità e luoghi “lontani” non andando mai al di là di una visione turistica. Da questa formula Il principe del deserto, basato sul romanzo Paese delle ombre corte di Hans Ruesch, è tutt’altro che avulso perchè summa per eccellenza della tipologia di prodotto che si sviluppa sulle idee che ha l’Occidente di un tronfio orientalismo, con protagonisti sceicchi romantici e donzelle dalla pelle perfetta. Una visione che sembra uscire dalla Hollywood di cartapesta proprio degli anni in cui la pellicola è ambientata e con la stessa poca voglia di scoprire la veridicità di un mondo complesso: con la differenza che almeno quel cinema possedeva tutta la capacità di un immaginario fiabesco. In realtà questa sembra una di quelle brutte produzioni televisive degli anni Ottanta con l’aggiunta di una rielaborazione da sussidiario del mondo politico arabo degli anni Venti, visto con la prospettiva di oggi. Il regista sembra solamente badare ai tramonti spettacolari dai colori accesi, come si può avere modo di comprendere già dai colori della locandina, e ai suoni di una colonna sonora (di James Horner) volutamente richiamante i fasti di Lawrence D’Arabia. Elementi sufficienti per comprendere i propositi razzisti, nascosti dietro il mito del buon selvaggio. Perché è questo che la pellicola vuol far passare attraverso il personaggio di Auda (comunque ben tratteggiato dal protagonista de Il profeta, Tahar Rahim, qui in ruolo totalmente in antitesi rispetto al precedente), nonostante sia un saggio uomo acculturato, è pur sempre “diverso”. Ed è irritante che l’Occidente, in un momento storico in cui è ormai assodato il suo fallimento politico, economico e sociale e con Cina, Brasile e Africa in netta ascesa, abbia ancora l’arroganza di proporre pellicole così fastidiosamente esotiche. Sembra di essere tornati, come dicevamo, allo spessore di una pellicola con Rodolfo Valentino, con la piccola e non sottile differenza che sono passati novant’anni da una produzione come Lo sceicco. Aggrava la situazione, per paradosso, il voler inserire come centro nevralgico dell’opera proprio questa condizione politica e il rapporto fra un Oriente pacifico vittima delle lusinghe occidentali, attraverso un oggetto di scambio che serve solo a ledere gli animi e dividere gli imperi: il denaro. Ma va?
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