Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Già più volte pubblicato da Medusa, Il Gattopardo ritorna ora in videoteca per un cofanetto speciale in occasione del suo recente restauro. E viene riproposto in una ricca edizione, recuperando il formato originale widescreen e accompagnandolo con L’ultimo Gattopardo, un documentario di Giuseppe Tornatore sul produttore Goffredo Lombardo e sulla turbolenta lavorazione del film. Ottima occasione per tornare a rivedere, ripensare e rivalutare una delle opere più controverse di Luchino Visconti, probabilmente la più ricordata, quella che ha goduto di maggiore popolarità presso il grande pubblico e che non ha mai smesso di alimentare il dibattito critico sui suoi valori estetici. Molti, affezionati al Visconti “neorealistico” (se mai è esistito) e di rocciosa militanza marxista, storsero il naso di fronte a questo accurato analista di decadenze, sì lucido e spietato narratore dell’ipocrisia socio-culturale intorno a cui nacque l’Italia Unita, ma anche tutto ripiegato su un sentimento crepuscolare per mondi e culture in disfacimento. In realtà, Il Gattopardo condusse al massimo grado di evidenza la conflittualità creativa pertinente all’autore, che permea la sua opera e che la traduce in una delle più originali della sua generazione. Quel conflitto tra “necessità ideologica” e “aderenza emotiva”, ovvero tra istanze di impegno storico-sociale e gusto privato per l’arte in sé e per le sue strutture perfette. Il Gattopardo sarà la prima, potente manifestazione di questo conflitto, che tuttavia allignava già in opere precedenti (Rocco e i suoi fratelli su tutte). Da lì in poi, il melodramma, la letterarietà, sposati all’indagine psicanalitica delle ragioni della storia, spazzeranno via qualsiasi altra ispirazione.
Il Gattopardo è in primo luogo una gioia per gli occhi. Ricorrendo in senso creativo al Technicolor (anzi alla sua versione già desueta, il Technirama), Visconti dà la stura al proprio gusto puramente pittorico, con uso predominante, non solo negli esterni, del campo lunghissimo, secondo un principio di minuziosa composizione dell’inquadratura. Ma non sono questi i suoi pregi maggiori. L’originalità de Il Gattopardo risiede tutta nello sguardo registico, che appare composito e anche incoerente, che si affida a una narrazione frammentata, spesso rapsodica, meno lineare di quanto appaia. Che, soprattutto, dilata i tempi del racconto. La storia di un matrimonio di comodo, favoreggiato da un aristocratico perché il vento del cambiamento non spazzi via il proprio mondo (questo, in fondo, è l’intreccio essenziale), non richiede in assoluto tre ore di racconto. Ma a Visconti sta a cuore altro. Sta a cuore innanzitutto il racconto, sempre più rarefatto nel suo svolgersi, di una cultura in disfacimento, ripiegata sui propri riti ormai meccanici e svuotati di significato. E ciò necessita di tempi lunghi, di dilatazioni spazio-temporali, perché il sentimento di abbandono della vita testimoniato dal principe di Salina possa esprimersi appieno. Per far questo, Visconti si affida talvolta a un approccio che ricorda La terra trema. Una sorta di sguardo estetizzante sulla realtà, il “documentario” di un’epoca scomparsa e sontuosamente ricostruita. Ciò emerge con forza nella sequenza dell’arrivo dei principi a Donnafugata e della Messa a cui prendono parte. Lunga, insistita, condotta con passo cauto e minuzioso. E ovviamente nel lungo brano conclusivo del ballo. Ma anche negli “inutili”, narrativamente non necessari, inseguimenti tra Tancredi e Angelica nei corridoi di un palazzo in disuso. Poi, certo, ci sono i dialoghi saccenti, didascalici e letterari fino allo spasimo, che filosofeggiano col senno di poi sul trasformismo e l’immobilità, vizi italiani colti alle loro origini storiche. Ma, a distanza di quasi 50 anni, Il Gattopardo resta una preziosa esperienza audiovisiva. Da fare e rifare, e rifare.
Il valzer di Burt Lancaster e Claudia Cardinale. L’unione tra aristocrazia e borghesia, ovvero la fine dell’aristocrazia: