Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Recuperato in dvd di recente da Minerva/Rarovideo, Venga a prendere il caffè da noi è una commedia al contempo convenzionale e anomala. Convenzionale e, meglio, fondatrice di nuove convenzioni perché radicata in un contesto provinciale e piccolo-borghese che costituisce uno dei nuclei più ripercorsi dalla nostra commedia classica, e che troverà uno sfruttamento (sempre più verso il lato pruriginoso) lungo tutti gli anni ’70. Forse è un po’ forzato riconoscere al film di Lattuada il “merito” di aver dato la stura al dilagare della commedia sexy all’italiana, ma è pur vero che le trasgressioni di provincia dei vari Banfi, Montagnani e soci, tra sciatte calze a rete e vizi di famiglia, ritroveranno un terreno comune con le avventure caserecce del viscido Emerenziano Paronzini, interpretato da Ugo Tognazzi a uno dei suoi vertici di carriera. E’ il contesto sociale, l’orizzonte del reale, l’afosa e repressa vita provinciale che più di tutto evocano tale filiazione. Certo, il film di Lattuada non è l’unico dei suoi anni a collocarsi su questo piano (c’è già stato Grazie zia di Salvatore Samperi, 1968, e in maniera più conclamata interverrà Malizia, sempre di Samperi, nel 1973). Ma di quell’humus fa parte, secondo linee ovviamente meno commercializzate (nessuno, credo, avrà messo a rischio le proprie diottrie per le tre zitelle interpretate da Angela Goodwin, Milena Vukotic e Francesca Romana Coluzzi…).
Tuttavia, quel che distacca fortemente il film di Lattuada sia dalle convenzioni pregresse, sia da quelle in divenire, e che costituisce la sua profonda anomalia, risiede nell’approccio narrativo. Quasi freddo, geometrico, straniante, “brechtiano”, in certo senso spietato, ma al contempo intensamente partecipe verso i propri personaggi. Che, pur vagamente “mostruosi” secondo principi fisiognomici, non sbracano mai in macchietta fine a se stessa. Anzi, a ciascuna delle figure umane messe in gioco è riservata almeno una sequenza umanizzante, che s’increspa di vero dolore (Tarsilla è ingannata; Fortunata si scontra con la sua tardiva verginità; Camilla è tenuta intenzionalmente da Paronzini nella sua isterica illusione romantica). A questo si accompagna però uno sguardo cinico e sulfureo, a tratti insostenibile nel suo gelido ghigno. Sulla scorta del romanzo “La spartizione” di Piero Chiara, che fa da soggetto, Lattuada non attacca soltanto la repressione sessuale alimentata da contesti sociali pesantemente cattolici, ma conduce anche un discorso più sottile sui profili antropologici scaturiti da una cultura rigidamente materialistica. Paronzini agisce solo sul piano di uno scambio. Lui darà alle tre sorelle solo ciò che desiderano, con atteggiamento rigidamente “professionale” (si veda la sequenza del primo incontro sessuale con Tarsilla); in cambio, avrà coccole e benessere, di cui si sente oscuramente in credito verso il mondo. Tra riflessi freudiani mai troppo didascalici (le tre zitelle ridotte a mogli-madri) e lancinanti parentesi ben sottolineate da un ottimo commento musicale di Fred Bongusto, Lattuada mina dall’interno molte convenzioni sociali dell’Italia provinciale dell’epoca, ma al contempo carezza i propri personaggi, li ama. Perché, come dice Camilla in una delle sequenze più belle, “Tanto il bello quanto il brutto sono frutto di un uguale sforzo creativo e sono pertanto qualità raggiunte”. Onore al merito per la Minerva/Rarovideo, quindi, che recupera un film invisibile da anni: forse l’opera migliore del Lattuada dell’ultimo periodo.
Proposta di matrimonio in mezzo ai salumi: