Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI
Una cinematografia ricca e complessa come quella giapponese non smette di riservare sorprese. Così, dopo aver omaggiato nel 2009 un autore nipponico conclamato come Nagisa Oshima, quest’anno il Festival di Torino nella sezione Rapporto Confidenziale ha permesso di approfondire la personalità di un altro esponente di quella cinematografia, Sion Sono, meno noto ma già apprezzato nell’ambito dei maggiori festival internazionali, perlomeno a partire da quel folle capolavoro che è Love Exposure, presentato al Festival di Berlino nel 2009. A un primo impatto Sion Sono potrebbe apparire un regista superficialmente legato a certi topoi del cinema giapponese per via dell’esposizione di violenza, sangue e sesso; una sorta di figlio minore della eccellente produzione nipponica fiorita in particolare negli anni ’60 e ’70, dove tematiche simili avevano allora una forte connotazione politica ed erano il portato della ribellione nei confronti della società tradizionale (si veda in tal senso una figura di cineasta come quella di Koji Wakamatsu). La stessa preferenza di Sono nel raccontare quasi sempre il percorso esistenziale di adolescenti (dal programmatico Bicycle Sighs, 1990, fino al più recente Himizu, presentato quest’anno in concorso a Venezia) rientra a pieno titolo nei codici del cinema del Sol Levante. Ma, di fronte a quella che potrebbe sembrare un’aderenza di comodo alla vulgata cinematografica del proprio Paese, Sono risponde con la sua straordinaria personalità di ribelle e di (quasi) nichilista. Il centro del suo cinema è infatti interamente occupato dai sinceri e radicali turbamenti esistenziali dei personaggi: la loro ribellione, il disprezzo verso la società, il desiderio costante di cambiare vita indossando altri abiti sono gli strumenti di una decisa affermazione dell’io individuale.
È a partire da qui che Sion Sono dimostra di saper riflettere con grande potenza emotiva sulle contraddizioni della società giapponese: finita l’epoca dei rigidi riti della tradizione culturale, superati dalla liberazione sessuale e dalle contestazioni, il Giappone di oggi sembra essere tornato indietro con la differenza che quelle regole sono diventate puro strumento di prevaricazione del prossimo (la figura corrotta del padre che umilia moglie e figlia in Strange Circus, 2005; il marito che sfrutta il suo ruolo per trattare la moglie come una serva in Guilty of Romance, 2011). Da qui nasce allora il riscatto dei personaggi, la loro voglia di imporsi, di aver diritto di parola e di azione. Ed è in tal senso che, proprio perché la società giapponese è ancora fortemente maschilista, il cinema di Sono ha una connotazione estremamente femminile, presentando una serie di straordinarie eroine, a partire da Love Exposure, per arrivare a tanti altri ritratti di donne e ragazze (I am Keiko, 1997, Noriko’s Dinner Table, 2005, Strange Circus, ecc.). Ma il tentativo di imporre la propria personalità deve scontrarsi naturalmente con l’opposizione del prossimo, del Potere, della Legge, della Famiglia. Ecco che caratteristica comune a tutti i personaggi di Sono è l’umiliazione cui devono passare per potersi poi esprimere. Sia dal punto di vista fisico che da quello emotivo i protagonisti del suo cinema vengono sottoposti a delle torture indicibili, come se il regista li passasse ogni volta dentro una centrifuga sottoponendoli a una girandola di sfide estreme. Fedele all’idea che se si sanguina si è ancora vivi, Sono fa “sanguinare” i suoi personaggi fino al limite, fermandosi giusto un momento prima della morte e raggiungendo talvolta l’annichilimento definitivo. Del resto – verrebbe da dire – è la sofferenza che forma il carattere e a quel punto, se il personaggio ne ha ancora la forza, può reagire. A questo proposito, due esempi opposti sono Strange Circus in cui la protagonista si arrende, e Himizu dove al contrario sembra che i due ragazzi possano farcela.
Avendo esordito con delle opere di poesia, Sono mantiene una costante poetica nel suo lavoro che non si esplica però in una presunta ricerca di chissà quali sensazioni aleatorie, quanto letteralmente nei testi delle sue voice over. Presente in diversi suoi film, la voce narrante dà il tempo e il ritmo al racconto cinematografico esaltandosi in variazioni e ripetizioni. Ciò accade in particolare in Bicycle Sighs, prima grande prova autoriale di Sono. Ma la ripetizione ossessiva di una frase, di uno slogan o del proprio nome è una tecnica verbale che Sono usa anche nei dialoghi (mantenendo perciò anche in essi una ritmica come se fossero scritti in versi) e la vera finalità di questo procedimento è di nuovo quella di poter affermare l’identità, magari anche urlandola e ripetendola potenzialmente all’infinito. Viene in mente ancora Himizu con quel finale in cui il protagonista è sollecitato a reagire da una frase ripetuta decine di volte dalla fidanzata (un urlo rivolto a tutto il Giappone visto che nel film si fa diretto riferimento al disastro di Fukushima); ma per fare un esempio da europei si può cercare un corrispettivo nel Jean-Pierre Léaud che in Baci rubati di Truffaut (1968) ripete come un ossesso di fronte allo specchio il celebre nome del suo personaggio, Antoine Doinel.
E l’identità sotto scacco dei protagonisti del cinema di Sono ha un concreto parallelismo con il regista stesso, che trasferisce tutto se stesso nelle umiliazioni cui incorrono i suoi eroi al punto da voler comparire fisicamente davanti alla macchina da presa anche nelle vesti del protagonista, come nei primi corti, A Man’s Hanamichi, 1986, Bicycle Sighs. Ma dove il regista racconta in maniera più aperta se stesso, al di là del giovanile Bicycle Sighs, è in Into a Dream (2005), in cui si mettono in scena i turbamenti di un attore ormai di successo che si trova a passare continuamente da un’identità all’altra, da una storia all’altra, per un incrocio di tre vicende. Pur non interpretato dallo stesso Sono, qui l’identificazione tra il protagonista e il regista appare totale e il film vale da amara e disperata riflessione sulla sostanziale inutilità del cinema stesso (e del teatro) nell’ottica di una liberazione esistenziale: una gabbia, così come la famiglia e la società, di cui si resta prigionieri quando si diventa professionisti dell’arte cinematografica.