Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI
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Il cinema documentario non è più fatto di riprese volanti, piatte interviste di fronte alla videocamera e sprezzo disinteressato per un discorso estetico e una impostazione stilistica. Lo dimostra con ogni evidenza Il castello di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti che viene presentato in Italiana.doc al Torino Film Festival. Il titolo kafkiano vuole suggerire la paradossalità di un luogo come l’aeroporto Malpensa che, nei suoi diversi aspetti, è l’oggetto del discorso. Riusciti a ottenere i permessi per girare all’interno degli spazi aeroportuali, D’Anolfi e Parenti hanno restituito un luogo enigmatico e straniante riprendendolo con un rigore visivo impressionante e altamente cinematografico. Il film non a caso inizia con delle inquadrature fisse dove non appare alcun essere umano e quei corridoi deserti, quelle torri di controllo che si ergono nella notte rimandano a un immaginario a metà tra la fantascienza e l’horror. Così, quando entrano in scena i primi esseri umani, poliziotti e passeggeri, appare evidente come il luogo stesso arrivi per certi versi a condizionare una situazione esistenziale disumanizzata, tra un eccesso di controlli e un costante attacco alla privacy delle persone.
Diviso in quattro capitoli, tra arrivi, partenze e attese, Il castello non ha mai bisogno di proporre o imporre delle spiegazioni; è sufficiente la forza di un’inquadratura allucinata o un interrogatorio inquietante e disturbante per avere il polso di un macrocosmo come quello di Malpensa in cui sembra concentrarsi tutto lo scibile umano sotto forma però di costrizioni e di deviazioni burocratiche. L’idea del controllo è infatti il vero nucleo del film: il controllo inteso come ferreo regolamento aeroportuale ma anche come regia mai improvvisata e sempre calibrata con grande attenzione. Ogni gigantesco meccanismo dall’apparenza perfetta ha però la sua piccola falla, il suo bug di sistema. In questo caso si tratta di una anziana signora che si è insedita all’interno del castello-Malpensa e che i registi hanno seguito mostrando i vari espedienti che la donna mette in atto nel corso delle sue giornate (dal cucinino con cui si prepara i pasti alla cura dei capelli). Della donna non viene detto nulla, cioè non si sa chi sia e perché viva lì, e questa soluzione se possibile aumenta la forza del film che non ha bisogno di “dimostare” (e dunque di spiegare con didascalie e didascalismi), ma solo di “mostrare”.