Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI
È finito il tempo dell’indie americano disturbante e scorretto che ha dato scandalo per qualche anno, proponendo anche film di assoluto livello – in particolare negli anni ’90 – dai lavori di Harmony Korine a quelli di Todd Solondz (che prosegue tuttavia a lavorare, ma con risultati sempre meno eclatanti). Anzi, forse è proprio finito l’indie americano come concetto e come proposta alternativa a Hollywood. Restano dei piccoli film, interessanti anche se vagamente auto-limitanti, e uno di questi è A Little Closer, primo lungometraggio di Matthew Petock, che è stato presentato in concorso a Torino 29. Nato a Richmond in Virginia, Petock ha ambientato A Little Closer proprio nei luoghi della sua infanzia, nell’intenzione di trasferire una maggiore intimità al suo racconto. Una madre, Sheryl, e due figli, Stephen e Marc (l’uno di sedici anni, l’altro di undici), sono i protagonisti della vicenda; tre personaggi solitari in dissidio tra loro, più interessati a muoversi verso il mondo esterno che a cercare ogni tanto conforto l’uno con l’altro. Sia pur attraverso un meccanismo narrativo assolutamente minimal, in cui l’unico evento forte del film avviene nei primi minuti quando Marc viene ferito involontariamente all’occhio dal fratello maggiore, A Little Closer racconta la storia precisa di distacco e poi di riavvicinamento di una famiglia americana in cui manca come un macigno la figura paterna.
Tutti e tre i personaggi perciò si muovono lungo il film alla ricerca di una soddisfazione, di un desiderio, da cercare per forza di cose lontano da casa. E tutti e tre vorrebbero soddisfare un desiderio sessuale: Sheryl, stufa di trovarsi senza un uomo, va in cerca di compagnia in uno spoglio locale a metà tra il pub e la balera, Stephen cerca di conquistare una ragazza con cui vorrebbe andare a letto, Marc è infatuato – ancora naturalmente in modo infantile – della sua insegnante. Dai comportamenti dei tre personaggi e dal loro muoversi all’interno di un paesaggio sconsolato e desolante fatto di ruderi e rovine, emerge un ritratto dell’inconsapevole male di vivere dell’americano rurale, in un luogo in cui la civiltà arriva solo in forme esteriori (macchine o elettrodomestici). E allora – se si vuole anche un po’ banalmente – la comunità, la condivisione e il sostegno reciproco non può che ritrovarsi all’interno del nucleo familiare. Con un assunto così semplice e ovvio, A Little Closer può anche lasciare un senso di vaghezza, ma non si può negare il realismo della descrizione di questa wasteland che, invece di essere rabbiosa come nell’indie anni ’90, appare rassegnata al suo destino.