Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI
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Il percorso cinematografico dei torinesi Gianluca e Massimiliano De Serio, il cui apice è per ora Sette opere di misericordia, dovrebbe valere da modello per altre istituzioni culturali nazionali che, al contrario di quel che avviene in Piemonte, non riescono e non vogliono coltivare i propri talenti. Il Torino Film Festival, nelle vesti dei suoi selezionatori, e i vari fondi piemontesi per l’audiovisivo hanno saputo riconoscere già anni fa il talento dei due registi, premiandone di volta in volta i progressi fino alla vittoria nel concorso di Italiana.doc dello scorso anno con Bakroman. È stata anche questa fiducia che ha permesso ai De Serio di migliorare di film in film e che ha creato le condizioni per la realizzazione di Sette opere di misericordia, loro esordio nel lungometraggio di finzione. Già presentato in concorso a Locarno e poi selezionato in tanti festival internazionali, tra cui Annecy, il festival di Marrakesh (vincendo in entrambi il premio della giuria) e Pusan, il film è “tornato” in Italia passando lo scorso dicembre in anteprima proprio al festival di Torino ed esce ora in sala distribuito da Cinecittà Luce.
Più che le sette opere di misericordia evangeliche, è il dipinto omonimo di Caravaggio che i registi hanno preso come riferimento per il loro film, un riferimento etico ed estetico: la realistica piccola umanità napoletana ritratta dal pittore e il colore corposo e contrastato dell’opera, i suoi improvvisi abissi di buio e gli spiragli di luce. In tal senso la pellicola dei De Serio è impostata su un rigore estetico (la cura meticolosa di ciascuna inquadratura così come una scelta luministica sempre ponderata, dalle penombre a certe sovraesposizioni) che si accompagna a un sincero approccio umanistico, raccontando prima lo scontro e poi l’avvicinamento tra due personaggi, un anziano signore malato e una giovane migrante. Interpretati da uno straordinario Roberto Herlitzka e dall’ottima Olimpia Melinte (un volto e un corpo molto alla Dardenne), i due protagonisti si relazionano e comunicano con i corpi – per l’appunto come in un’opera caravaggesca – più che con le parole. Ed è proprio nell’asciuttezza dei dialoghi e nell’assoluta preponderanza delle immagini, capaci di restituire materialità alle figure umane, che i De Serio superano brillantemente il rischio del didascalismo, cui pure un tema siffatto avrebbe potuto condurre. Il tema banalmente detto dell’immigrazione viene infatti quasi sempre raccontato dal nostro cinema con paternalismo, superficialità, distacco e con tante, troppe parole. Finalmente invece accade che Sette opere di misericordia sia un film capace di parlare al pubblico internazionale, come del resto si è già visto dal successo di questi mesi. Ora, però, è il momento di farlo arrivare allo spettatore italiano.
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