Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Il concorso di Torino 29 con le sue 16 opere inedite di autori alla loro prima, seconda o terza opera, e una predilezione per il cinema indipendente, sembra puntare su storie di esistenze al limite interpretate da grandi attori. Anche A confession di Park Su-min e Three and a half di Naghi Nemati, visti oggi, vanno in questa direzione. Al centro di A confession, opera prima del regista coreano Park Su-min, una laurea in scrittura creativa, la vicenda di un torturatore dell’ex regime che non riesce a fare i conti con le vite che ha segnato (in alcuni casi cancellato) e prova a cercare nella fede il perdono che non riesce a concedersi. Ormai vecchio e solo, viene perseguitato nel sonno dai fantasmi del passato e dalla drammatica vicenda che ha segnato la sua famiglia. Per guadagnare denaro, continua a infliggere dolore alle vittime scelte da Kang Il-hyun, un boss della malavita locale e, come in passato, continua a usare come mezzo di tortura l’acqua. La stessa acqua che nella cultura cristiana serve a purificare dai peccati e a farci entrare nel regno di Dio. Non a caso con l’acqua si compie il battesimo. Anche quelli dell’anziano uomo sembrano delle cerimonie, ma invece che verso la salvezza portano verso il regno del dolore e della morte.
Fin dalle prime scene A confession ci mostra l’anziano in un immenso parco desolato, metafora del suo stato d’animo, del suo senso di sconforto e solitudine. Proprio al parco incontra una donna che attraverso Dio, cerca di aiutarlo a trovare pace: la signora Lee crede nel potere consolatorio della fede. Ma l’incontro in chiesa con il suo ex capo della polizia militare (l’uomo viene accolto come esempio perché si dice pentito per le atrocità commesse) e l’omicidio della signora Lee, gli confermano che nessuno potrà mai assolverlo per i peccati commessi perché non esiste alcun Dio. Tutta la narrazione sembra sospesa in una sorta di silenzio non reale anche quando sentiamo il rumore dell’acqua, della tv nella casa spoglia dell’uomo, delle strade, delle urla di dolore delle vittime dell’aguzzino; come se il regista cercasse l’assenza di suoni per guidare in maniera più forte lo spettatore nel percorso di ricerca di Park Duk-joon (intepretato da un intenso Gwon Hyuk-poong, attore di teatro e di cinema tra i più apprezzati in Corea). In questo processo ad avere un ruolo fondamentale è anche l’uso attento e rigoroso della macchina da presa, alla ricerca di una pulizia dell’immagine assoluta sia quando il film si tinge di atmosfere drammatiche, immerse nella luci fredde di una città inerte, sia nella violenza di un paesaggio innevato dove la potenza dei bianchi accentua il dolore e l’assenza di pace nell’animo del protagonista. Nella seconda parte, in tutto il rapporto con il nipote della signora Lee (Lee Joo-seung, noto al grande pubblico grazie a People at a Funeral di Baek Seung-bin ), assassino anch’esso, c’è un’esibizione di violenza fisica e psicologica, ingigantita dalla macchina da presa che lavora sullo sguardo dei personaggi, sulle loro relazioni e su un mondo che Dio ha creato violento, pericoloso, dove il perdono è solo un’illusione e una giustificazione – soprattutto per il giovane – per continuare a commettere il male. Invece l’uomo apre gli occhi di fronte alla realtà: prova a credere ma, come in casa, anche nella neve della scena finale, continua a fissare a terra, consapevole dell’inesistenza di un ‘salvatore’ che lo possa aiutare a guardare verso l’infinito, verso un futuro di redenzione.