Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Da tempo la sezione Italiana.doc del Torino Film Festival segue alcuni registi nel loro percorso di evoluzione. Di pari passo ritaglia spazio ad altri – esordienti – e a coloro che cercano di portare avanti il discorso vasto sul ruolo del documentario, tra etica ed estetica. Tra questi, Simone Rapisarda Casanova, italiano da anni trapiantato in Canada, ha dato vita a El arbol de las fresas (l’albero delle fragole) come vero e proprio documento-omaggio delle riprese realizzate in un villaggio cubano spazzato via dall’uragano l’anno successivo al suo passaggio. Presentato in prima mondiale al Festival di Locarno dove ha ricevuto un’ottima accoglienza, El arbol de las fresas non è un lavoro antropologico e non insegue gli abitanti che popolano una realtà rurale un po’ fuori dal tempo dove vigono le regole e i mestieri presenti nelle zone italiane di oltre cinquant’anni fa. O comunque non solo questo. Il più delle volte la telecamera viene abbandonata per terra e il regista si limita a imprimere su nastro quello che davanti ad essa accade. Altre, come quasi in un filmino di famiglia, il buffone con la telecamera – come viene definito da alcune signore, viene chiamato in causa, protagonista di conversazioni e quindi operatore, regista e protagonista al tempo stesso di una verità extradiegetica. Sicuramente Casanova realizza un film – saggio sulla vita, sul suo scorrere e sul ruolo del documentarista anche del documentarista inconsapevole, perchè dopo alcuni mesi, si è ritrovato non con le immagini di un viaggio ma con la testimonianza filmata di una realtà scomparsa, con la descrizione di un villaggio che non esisteva più, tra volti di persone che avevano perso tutto quello che erano e avevano.
Il visibile che entra in contrasto con l’invisibile, la realtà con l’idea di una realtà parallela dove la morale e il rispetto degli individui è l’unico punto di riferimento forte. Casanova aveva la possibilità di inserire nel documentario le riprese effettuate l’anno successivo alla disgrazia ma ha deciso di non farlo, di non lasciare che il voyeurismo avesse la meglio sul racconto del luogo e dei suoi abitanti. Il plus valore dato al film sta anche e soprattutto nell’aver sgranato l’immagine, aver aiutato lo spettatore a immergersi in una realtà ‘altra’ anche grazie a colori pastello, al loro calore così raro da ritrovare soprattutto quando si racconta una terra dai forti contrasti culturali, politici e visivi di Cuba.