Realizzare l’adattamento cinematografico di uno dei cardini della cultura classica d’Occidente può essere la cosa più semplice come la più difficile. Più semplice perché il classico è sempre attuale e basta costruire il prodotto con gusto ed eleganza e il gioco è fatto. Più difficile perché il film deve confrontarsi in primis con la storia che tutti conoscono e poi con i riferimenti culturali di decenni, o come in questo caso, di secoli di mescolamenti e fruizioni dell’opera. Lo schiaccianoci è l’emblema per eccellenza di questo concetto perché viene continuamente realizzato a teatro, viene ristampata la fiaba, si susseguono studi universitari, la musica è quasi un cicaleccio che si ode sempre, in particolare a Natale. Alla base della favola di E.T.A. Hoffman e del balletto di Ciajkovskij, la co-produzione anglo-ungherese di Andrei Koncalovsky si ripromette di voler rielaborare la storia mantenendo una visione da cinema classico, ma facendo molti cambiamenti nella collocazione anagrafica della vicenda e rielaborandola attraverso riferimenti alla cultura artistica e storica del Novecento e non solo.
Ma il risultato è, senza troppi eufemismi, disastroso. Non tanto per gli stravolgimenti originali, che potrebbero apparire anche interessanti se realizzati con un certo criterio (e anche quello manca), quanto per l’assoluto cattivo gusto della messa in scena del prodotto, che gronda elementi kitsch e una sciatteria che fa perdere la magia di una riedizione che dovrebbe essere affascinante proprio per la sontuosità del suo spettacolo visivo. Così ci troviamo di fronte a una banalità che ha dell’inverosimile: dai roditori cattivi che richiamano la Germania nazista con uno pseudo Hitler con parrucche a mo’ di Andy Warhol, ad una esagerata ed esasperante regina dei topi simile a Vivianne Westwood, fino alla distruzione dei giocattoli che richiama i corpi ammassati nei campi di concentramento, mentre ragazzini esotici richiamano il razzismo coloniale dei libri di Kipling, in un tripudio di riferimenti senza né capo né coda ad Alice nello specchio e Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, al Pinocchio di Collodi. Da menzionare poi la sequenza della liberazione del regno dei topi attraverso una scena che richiama la Parigi nel giorno della Liberazione con in sottofondo la musica del povero Ciajkovskij trasformata in una canzoncina da Zecchino d’Oro. I testi delle canzoni meriterebbero un capitolo a parte visto che la scelta di doppiare tutto in italiano le ha rese ancora più criticabili. Ma ancor di più è l’economia del prodotto (incomprensibile visto il budget da 90 milioni di dollari) a imbarazzare, con effetti speciali fatti malissimo, riproduzioni di Klimt che sembrano prese da ritagli di giornale, costumi da recita scolastica. Un’operazione che si assicura interpreti di grande talento come Nathan Lane, John Turturro e Frances de la Tour che sono sopra le righe, inverosimili e i giovanissimi interpreti legnosissimi, persino la brava Elle Fanning. Un “capolavoro” di surreale bruttezza, che a realizzarlo di proposito non sarebbe venuto così bene.
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