Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Judy Davis è un’attrice di grande classe, iconografia di alcuni fra i più importanti ritratti femminili di registi come Woody Allen, David Lean, David Cronenberg, i fratelli Coen. All’ultimo Festival di Roma l’abbiamo apprezzata nel mediocre The Eye of the Storm di uno smarrito Fred Schepisi e nel thriller di spionaggio classico Page Eight di David Hare, ma l’interprete australiana lanciata da Gillian Armstrong, giovanissima nel 1979 con La mia brillante carriera, è stata anche fra i protagonisti di una interessante serie televisiva statunitense, andata in onda fra il 2007 e il 2008 (in Italia in queste settimane replicata su La5), purtroppo cancellata a causa del calo ascolti, ma apprezzata dalla critica per il suo taglio leggero e velatamente acido: The Starter Wife.
In origine una miniserie, poi trasformata in serial e basata sul romanzo omonimo di Gigi Levangie Grazer, racconta le traversie tragi-comiche di Molly Kegan, la ricca moglie quarantenne di un produttore di Hollywood abbandonata dal suddetto per una cantante con la metà dei suoi anni. La serie racconta le traversie della donna messa al bando dagli amici di un tempo perché priva di un ruolo sociale: adesso è una prima moglie che per quei canoni è appassita dal tempo e non ha più lo status che la sua condizione precedente le aveva regalato. Le restano i migliori amici, Joan, un’alcolizzata cinquantenne (la nostra Judy Davis) con un matrimonio casto, Cricket, la moglie trascurata di un regista emergente, Rodney, l’amico omosessuale arredatore d’interni e la figlioletta. Su questa linea la serie non sembra possedere nulla di interessante, in realtà postula un concetto tanto evidente quanto poco considerato, la mercificazione del ruolo della donna e la cultura dell’immagine, la figura femminile come oggetto di consumo e la sua sostituzione con un “prodotto” più giovane. Un oggetto bello e buono, non dotato di altre qualità che non siano l’aspetto e l’età. Alla fine però Molly Kegan saprà riscattarsi e dimostrare il contrario, come già avevano fatto Diane Keaton, Bette Midler e Goldie Hawn nella spassosa commedia anni Novanta Il club delle prime mogli.
Ma in questo caso più che una vendetta, Molly ricostruisce se stessa e la sua dignità dimostrando di essere ben più di un’organizzatrice di feste e una consumatrice di carte di credito. La serie, ben costruita e con buoni tempi comici, si affida al grande cast, ad una Debra Messing che smessi i panni di Grace Adler in Will & Grace, costruisce un personaggio molto più complesso e non certo meno ironico, e a tutti i suoi comprimari, che rielaborano con originalità una sfilza di luoghi comuni caratteriali che diventano lo specchio di una società, quella hollywoodiana, destinata a finire. A cominciare da Judy Davis, che fa di Joan McCallister un ritratto di crudele ironia, che si piazza proprio in mezzo alla galleria dei personaggi sgradevoli di una carriera di volti umani. Il tocco perfetto che arricchisce una serie, solo affacciatasi al mondo televisivo, la cui pioggia di nomination agli Emmy si è trasformata in una sola statuetta per la Davis.