Cosa piove dal cielo?

23/03/12 - L'incontro tra un ferramenta argentino e un ragazzo cinese diventa l'occasione per uno sguardo cinico e disilluso su un'umanità alla deriva.

Dalla nostra inviata DARIA POMPONIO

Deliziosa commedia argentina dai toni grotteschi, ma non priva di un sostanzioso substrato metaforico, Un cuento Chino di Sebastian Borensztein (ri-titolato per la distribuzione italiana Cosa piova dal cielo?) ha già incantato a novembre il pubblico presente al Festival di Roma 2011, dove ha vinto il Marc’Aurelio della Giuria per il miglior film. Distribuito in Italia dalla Archibald e in uscita il 23 marzo, il film racconta la storia di Roberto (Ricardo Darìn), un inguaribile misantropo traumatizzato dall’esperienza della guerra delle Falkland, che si corica ogni sera alla stessa ora, fa colazione sempre allo stesso modo, non sa accettare regali, conta i chiodi nel suo negozio di ferramenta per assicurarsi di non essere stato truffato. La sua attività preferita è però ritagliare dai quotidiani notizie assurde, nello stile di quelle contenute in Magnolia di P.T. Anderson, solo che nel film di Borensztein, anziché piovere rane, piovono mucche, con esiti disastrosi. L’incontro di Roberto con Jun (Huang Sheng Huang), ragazzo cinese che non parla una parola di spagnolo ed è alla ricerca dello zio, innescherà una serie di equivoci, inseguimenti e una stramba convivenza forzata, al termine della quale Roberto scoprirà che anche Jun ha una storia insensata e terribile da raccontare.

Esempio di un cinema antropologico capace di tratteggiare in pochi gesti personaggi a tutto tondo, Un cuento chino riesce a spiazzare continuamente lo spettatore proponendogli in sostanza di ridere delle disgrazie altrui, delle assurdità della vita e di un gruppo di personaggi soli e patetici. Risate a denti stretti, dunque, che si serrano definitivamente di fronte alle tragedie personali (quella di Jun) e collettive (la guerra delle Falkland per Roberto) e all’incapacità ontologica dei personaggi, a prescindere dall’idioma parlato, di comunicare e condividere. A trascinarci in questa tragedia semiseria è l’irresistibile sguardo obliquo di Ricardo Darìn, star dal cinema argentino oramai conclamata anche all’estero dopo l’Oscar vinto nel 2009 da Il segreto dei suoi occhi. Tiene insieme il tutto una regia dal tocco leggero, garbato e pungente, utile a tratteggiare l’affresco di un’Argentina contemporanea cinica e disillusa, dove si mangiano ancora interiora, salsicce di sanguinaccio e midollo, ultime vestigia di una cultura popolare un tempo condivisa e oramai perduta. Emerge dunque tra le righe un discorso sull’identità, del singolo e di un intero popolo, occasionalmente interessato al mantenimento delle proprie tradizioni e disposto a incontrarsi con “l’altro” solo in casi di emergenza.

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