Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
Boom. Il cancro (al quarto stadio) è entrato nella vita di Cathy Jamison come una bomba a orologeria pronta a scoppiare. La sua esistenza cambia per sempre. Improvvisamente una macchia sul divano che prima l’avrebbe tormentata e lo stress della vita quotidiana non hanno più importanza per la quarantaduenne insegnante di Minneapolis: il tempo che resta deve essere sfruttato per risolvere ciò che ha lasciato in sospeso: far capire al figlio adolescente quali sono le cose davvero importanti e, forse, liberarsi di un matrimonio dall’equilibrio precario. Ma, più di ogni altra cosa, Cathy vuole cogliere l’attimo della vita. Dopo Weeds, United States of Tara e Nurse Jackie, un’altra serie di Showtime incentrata su un forte personaggio femminile: The Big C. Le vicende create da Darlene Hunt mostrano una sensibilità atipica nei confronti di un tema tanto abusato come quello del cancro e, soprattutto, una chiave narrativa più leggera e ironica, che scardina i vecchi tabù e i clichè tanto cari al genere narrativo in sé e alle reazioni degli individui di fronte ad un evento di tale portata. Inizialmente, la serie non sembra carburare, ma poi trascina lo spettatore lentamente verso un sottotesto talmente delicato nella sua messa alla berlina della vita – e sui meccanismi psicologici degli essere umani – che ne esce fuori un ritratto amaro e doloroso eppure allo stesso tempo umoristico. Nella sua naturalezza.
Ogni serie di The Big C viene suddivisa in stagioni climatiche; la prima, l’estate, quando Cathy viene a scoprire della sua malattia, la seconda (in corso negli States), l’autunno, quando decide di voler combattere contro la malattia e avere più tempo. Perché The Big C non parla solo di cancro, ma più in profondità del ciclo naturale dell’esistenza, che tra nascita e morte deve fare i conti con gli affetti e i sentimenti vissuti giorno per giorno. Infatti, attorno al personaggio di Cathy, che inizialmente nasconde la sua malattia, quasi affrontasse in questo modo la sua condizione di rifiuto, si creano dei meccanismi paradossali. La donna prende di petto la vita, in maniera più leggera e scapestrata di prima perché ne comprende il valore; si libera dei suoi schemi borghesi e rimette in discussione rapporti lacerati, in particolare, con il fratello bipolare, che si ribella al sistema consumistico vivendo per strada. Una serie che costruisce personaggi a tutto tondo, con le proprie virtù e le proprie debolezze e contraddizioni, sviluppata con toni da commedia indie che ricorda certi aspetti delle sceneggiature di Eric Mendelsohn e Miranda July; sullo sfondo l’America suburbana e una quotidianità rimessa in discussione da una notizia che cambierà le vite di tutti, ma soprattutto quella di Cathy, la grande C, come il suo nome e la sua malattia. Questo dramedy trascende i classici film sul tema perdendone gli aspetti retorici per scoprirne altri più universali della malattia: trovando la sua carta vincente nella giostra dei rapporti umani. Con una Laura Linney più in forma che mai, accompagnata da un cast strepitoso, The Big C fa piangere dove sembra che faccia ridere e fa ridere dove sembra che faccia piangere all’interno di una miscela narrativa davvero ricca di sensibilità umana (e di qualità seriale).