Dal nostro inviato MASSIMILIANO SCHIAVONI
Francamente l’evento legato al film-sorpresa del Festival di Venezia potrebbe essere riconsiderato per gli anni a venire. Con la mirabile eccezione di due anni fa, quando apparve in concorso un secondo film di Werner Herzog, oramai consuetudine vuole che l’opera tenuta nascosta fino all’ultimo sia un film dell’Estremo Oriente, di norma cinese, fedele a una linea espressiva nobile, ma ormai sempre più prevedibile. Non fa eccezione nemmeno il film-sorpresa di quest’anno, People Mountain People Sea di Cai Shangjun. Opera di consueto rigore stilistico, che puntualmente può candidarsi per il Leone d’Oro, se i gusti della giuria andranno incontro alle tendenze più specificamente veneziane (il direttore della Mostra Marco Müller è un noto sinologo). In realtà Shangjun opera anche scelte non del tutto allineate alla poetica più diffusa del suo cinema nazionale di riferimento. O meglio, parte da premesse simili per approntare una sottile contaminazione. Il contesto è ancora quello del cosiddetto “neorealismo cinese”, alle prese con pagine di storia nazionale rimosse dall’ufficialità (come spesso capita col cinema di Zhang Yimou o l’anno scorso qua a Venezia con The Ditch di Wang Bing) oppure con la radiografia di un presente socio-culturale altrettanto occultato. Shangjun parte da questo, ma in realtà il viaggio in una Cina degradata scaturisce da una struttura quasi noir. Il protagonista si lancia alla ricerca dell’assassino del fratello per compiere la sua vendetta, spaziando tra regioni diverse del paese e finendo per incontrarsi con varie forme di disagio sociale. Dalla Cina rurale alla metropoli, alle miniere illegali.
In tal senso, People Mountain People Sea assume un passo narrativo costante e senza eccessive virate di registro, ma al contempo svaria dentro contesti di racconto sensibilmente diversi, culminando poi in un potentissimo finale (tutta l’ultima parte, ambientata nella miniera, è decisamente la migliore): un compimento di “giusta vendetta” e di spietata espiazione che si muove secondo una propria etica cristallina. Di per sé, insomma, Shangjun appare sì vagamente accademico, ma anche dominato da una propria lettura estetica personale. Non si vuole puntare il dito contro una supposta uniformità della cinematografia cinese. Magari, però, il film di Shangjun poteva essere tranquillamente inserito in concorso senza troppi occultamenti. E riservare invece lo spazio del film-sorpresa a qualcosa di davvero inaspettato per le recenti convenzioni del Festival di Venezia. La vera sorpresa, invece, è stata il brivido a metà proiezione in sala Darsena. Durante la proiezione ufficiale, alla presenza della delegazione del film con tanto di regista in sala, si è assistito a un improvviso fuggi fuggi del pubblico verso le uscite per sospetti afrori di gas e di fili bruciati. La proiezione è proseguita per qualche minuto, interrompendosi poi in mezzo a un sommesso panico del pubblico. Mezz’ora di stallo in cui la delegazione è apparsa vagamente spaesata. Il rito del film-sorpresa non è mai stato così sfortunato e, decisamente, si merita di meglio per il futuro.