Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
L’amore che fa male, che ti blocca il futuro e imprigiona l’animo senza lasciargli respiro. L’ossessione violenta e distruttiva sbarca al Lido alle Giornate degli autori con Love and Bruises del regista cinese Lou Ye, classe 1965. Protagonisti sono Hua (una brava Corinne Yam), una ragazza cinese che studia a Parigi per poi insegnare a Pechino, e Mathieu (il bellissimo Tahar Rahim, protagonista de Il profeta), un giovane operaio che si imbatte in Hua in un momento di grande fragilità emotiva (raccontato da una macchina a mano nervosa sia nei campi medi che sul suo primissimo piano). L’uomo che l’aveva portata a trasferirsi in Europa, l’ha lasciata e lei sembra non avere una meta, non sapere più dove portare la sua vita. Troverà così nel giovane francese, le cui cicatrici fisiche sono più evidenti ma anche più leggere di quelle che porta nell’animo tormentato e ferito, la passione e la ossessività di un uomo violento, incapace di vivere i rapporti umani in maniera adulta, vittima a sua volta di violenze e silenzi.
Come già in Spring Fever e Summer Palace, in cui Lou Ye privilegiava un tema attraverso una storia all’apparenza banale, anche in Love and Bruises il regista usa il rapporto di possesso e d’amore come strumento della sua denuncia. Tutto è in realtà metafora del “sentimento dello stare tra persone diverse, tra diverse politiche e culture, tra razze e territori, tra sesso e amore, tra violenza e tenerezza, tra amore e lividi”, precisa l’autore. Hua non è capace di respingere definitivamene l’uomo che ha perso il legame con se stesso (non è in grado neppure di sostenere il peso emotivo di una cena con i suoi colleghi e amici universitari) ed è vittima di una visione arcaica dei rapporti tra uomo e donna (Mathieu vuole che Hua lasci l’università e sia solo la moglie e la madre dei suoi figli) che la ragazza vorrebbe respingere anche perché l’indipendenza è sempre stato uno dei suoi valori. Ma per Hua, con affascinante e incomprensibile illogicità, Mathieu rimane comunque un sostegno alla sua incapacità di direzionare chiaramente il proprio percorso vitale. Ed è quindi fondamentale fare cenno alla solitudine poiché questa dimensione incrocia il tema apparentemente poco chiaro del film e ha spesso il sopravvento.
Sul piano della composizione visiva Ye fa il lavoro più apprezzabile perché sfrutta al meglio la scelta di girare in luoghi che ci appaiono veri. Sono soprattutto di grande impatto le scene che si svolgono nel giardino antistante il mercato dove lavora Mathieu, il cantiere della violenza, la casa nel quartiere popolare del ragazzo. E, a fronte di questo realismo così libero, ci sono i volti dei protagonisti che ‘trattengono’, affascinano e allo stesso tempo turbano lo spettatore, sia quando vengono mostrati dei dettagli fisici, ripetuti in maniera ossessiva durante i loro amplessi, sia nei campi medi dove i loro passi spesso incerti esemplificano il loro stato d’animo in maniera più incisiva di una qualsiasi battuta o, anche, di silenzi in scena.