Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Ci sono studi di sociologia, qui tornati molto utili, alla base della preparazione del regista Vincent Garenq che, dopo Comme les autres (2007) – suo primo film di finzione (prima diversi i doc e serie tv realizzate dal 1992) – torna alla regia per un’urgenza: rendere giustizia con immagini violente, emotivamente parlando, al calvario ingiusto e ingiustificato di 16 persone che nella Francia del 2001 vennero private della loro vita e del loro futuro perché accusate di aver violentato dei bambini, un crimine infamante che si scoprirà non essere imputabile a nessuno di loro. Prendendo spunto proprio dal diario lungo 20 mesi di una delle vittime, Alain Marécaux, ufficiale giudiziario, Garenq porta alle Giornate degli autori, Présumè coupable. L’autore francese immerge immediatamente lo spettatore nel dramma, cerca da subito l’immedesimazione con l’evento improvviso: un uomo che dorme accanto alla moglie improvvisamente svegliato dall’arrivo di macchine in giardino, arrestato e portato in una caserma dove rimane ammanettato al pavimento di una stanza per ore, proclamando la sua estraneità alla vicenda. Tale premessa segna la visione e ci dice che assisteremo a una storia di ingiustizia e coraggio. Lo straneamento nell’uomo è fortissimo perché nulla della sua vita avrebbe mai potuto condurlo in quella stanza, nulla dei suoi comportamenti giustificano i 4 anni di calvario che seguiranno e che lo spettatore vivrà con il protagonista, aspettando ansiosamente che in quell’aula di tribunale la donna che aveva accusato 16 persone, dichiarasse di non conoscerne neppure la metà ma di essere lei e la sua famiglia i veri colpevoli degli abusi sui minori.
Giocato sul registro del thriller noir, il film coinvolge proprio nel costruire una costante tensione tra gli impulsi umani di Marécaux – che prima crede nella giustizia e poi si arrende tentando addirittura di togliersi la vita – e lo sguardo proiettato all’esterno di un carcere dove la cronaca racconta di mostri. Una vita messa in relazione con la società circostante incapace di ascoltare un grido di dolore autentico. Il dramma si concluderà solo nel 2005 quando, come ci raccontano le didascalie finali Marécaux verrà reintegrato nella società e nel suo posto di lavoro ma quel risveglio nel cuore della notte, quell’arresto hanno dato origine a qualcosa che non potrà essere mai più essere ‘reintegrato’. Il racconto, sempre estremamente realistico, è sostenuto dal primo piano dell’attore Philippe Torreton (che se in concorso sarebbe probabilmente sua la coppa Volpi), il cui volto da uomo pacato e tranquillo prima e profondamente emaciato e segnato dal dolore (persi oltre 20 chili per rendere realistico il calvario) poi, è ‘solcato’ da un’espressione di incredulità costante, sostituita a tratti da una rassegnata disperazione. Con la sola forza della sua espressione, il protagonista si oppone ai volti dei giornalisti che raccontano in tv il dramma, a quelli dei giudici del tribunale, dei medici che lo assistono. Il regista riesce a intervenire sui personaggi anche grazie ad una fotografia ‘chiara’ e soprattutto all’uso di una macchina da presa che segue Marécaux in maniera perfetta. Inoltre parte importante della riuscita dell’opera va attribuita al montaggio che regala un buon ritmo alla narrazione e permette che emerga, in tutta la sua assurdità, l’errore giudiziario impersonificato dal volto di uno dei tanti uomini fantasma che ne sono vittime e che i media non mostrano.