Dal nostro inviato MASSIMILIANO SCHIAVONI
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Dopo lo squillo di Roman Polanski, in concorso a Venezia 68 con Carnage, arriva immediata la doccia fredda di Un été brûlant di Philippe Garrel. A volte capita di assistere a un film pensando per tutta la durata che all’autore sia rimasto ben poco da dire. Ed è proprio così che si esce dalla visione del film, in mezzo alle bordate di fischi e ululati della proiezione stampa. Garrel è un autore di lungo corso e di rispettosissima carriera, appartenente anzi a una sorta di brand familiare francese. Da Maurice Garrel (recentemente scomparso, presente anche qui in un piccolo cameo a chiusura del film), a Philippe, fino a Louis, terzo in ordine di discendenza, che abbina un ostentato spirito maudit allo status (suo malgrado?) di sex symbol: una dinastia creativa, fortemente legata al suo interno. Anche Un été brûlant si colloca, in parte, in un percorso autobiografico. Come già è accaduto in altre opere di Philippe Garrel, il percorso narrativo si costruisce per divagazioni apparentemente casuali, caratterizzate da lunghe riprese senza stacchi. E in tale tracciato narrativo, sfrangiato e dissonante, trova spazio ancora qualche rimando interno d’autobiografismo (il nonno Maurice Garrel che interpreta il nonno del protagonista, ovvero il suo vero nipote Louis…). “Lavoro molto con gli attori – ha affermato l’autore in conferenza stampa – provo e riprovo mille volte con loro; il lavoro di preparazione coinvolge gli attori per creare innanzitutto un clima tra di noi”. Tuttavia, stavolta Philippe Garrel sembra proprio vagare in cerca di un senso che non emerge mai. Presuntuoso, sentenzioso, avvitato intorno a inutili e banali psicologismi, Un été brûlant puzza di cinema vecchio, restando ancorato a idee e provocazioni che Oltralpe costituiscono sostrato comune a tutta una generazione d’autori, e che bene o male hanno germogliato pure nelle generazioni successive radicandosi come uno dei marchi cinematografici nazionali. E’ stato evocato, e in parte confermato dall’autore, un richiamo a Il disprezzo di Jean-Luc Godard. “Il mio è un film accademico – dice Garrel – che si riallaccia a cinema precedente, lavora su di esso”.
Ma, al di là delle intenzioni, in realtà Un été brûlant è opera maldestra, confusa, talvolta risibile. Monica Bellucci, sia detto, in francese recita assai meglio che in italiano, ma al contempo si porta addosso un tale impietoso pregresso critico da non riuscire mai, suo malgrado, a farsi prendere sul serio. I dialoghi, di certo, non aiutano lei né nessun altro attore coinvolto, che pure ci mettono grande impegno, da Louis Garrel ai due meno conosciuti Céline Sallette e Jérôme Robart. Più che l’accademismo, nel film possiamo trovare la brutta copia di tutto quel che ha fatto la fortuna (e sfortuna) del cinema francese d’essai degli ultimi sessant’anni: un po’ di metacinema, qualche riflessione a buon mercato sui massimi sistemi, un facilissimo spirito anarcoide e nichilista, il maledettismo di sentimenti romantici estremi… Ma tutto ripercorso stancamente. Il trionfo del fasullo. Il destino di artisti annoiati, falliti e radicalmente borghesi finisce per interessare davvero poco. Perché, in sostanza, ai loro tormenti si fa fatica a credere.