Chi era Bette Davis? Un mito, una leggenda? Tanto di lei si è detto, vociferato, sparlato, scritto. Quest’anno è stata finalmente tradotta in italiano la prima delle sue due autobiografie Lo schermo della solitudine – Autobiografia di un mito (pubblicata negli USA nel 1962 col titolo The Lonely Life. An Autobiography e curata nell’edizione italiana di Lithos da Maurzio De Benedictis con una lunga nota introduttiva e tradotta da Filippo Kulberg Taub). Che non avesse un carattere facile lo dicevano tutti, ma la sua figura è rimasta impressa nell’immaginario collettivo soprattutto per i suoi ruoli di donna forte e determinata. Stregava con i suoi enormi occhi, ai quali Kim Carnes ha dedicato una popolare canzone negli anni Ottanta, Bette Davis Eyes. Eppure per i canoni di Hollywood, la Davis non era bella, anzi i produttori la consideravano uno “scricciolo marrone”, una di cui la Universal di Carl Laemmle non sapeva cosa fare. Cominciarono, così, in quel 1931 di esordio davanti alla macchina da presa, anni di brutti film, che continuarono anche quando passò alla Warner Bros., la storica casa di produzione con la quale fu sotto contratto per diciotto anni e contro la quale l’attrice, due volte vincitrice dell’Oscar, intraprese una causa legale leggendaria al fine di ottenere migliori ruoli e, di conseguenza, un migliore contratto. Lottava per le parti che voleva e come le voleva interpretare, sempre alla ricerca della verità del ruolo, anche a costo di apparire sgradevole esteticamente, come quando voleva la parte di Mildred Rogers in Schiavo d’amore, “la prima donna protagonista malvagia mai interpretata sullo schermo secondo un modulo di realtà”, come lei stessa disse, una performance che cambiò la concezione della recitazione cinematografica per sempre. Lei che fu sempre il personaggio, ma anche un pò Bette Davis, era alla ricerca di una recitazione naturale, ma anche consapevole del contenitore, oltre che del contenuto espresso. Non si comprende Bette Davis finché non si legge Bette Davis.
Ma sentir parlare Bette Davis di se stessa è prima di tutto sentir parlare del suo mondo; il suo è un ritratto senza peli sulla lingua del teatro statunitense della fine degli anni Venti e di una Hollywood lungo l’arco di tre decenni. Il suo libro è quindi prima di tutto uno spaccato sociale e storico nel quale i pensieri e il racconto delle sue esperienze divengono un contraddittorio flusso di coscienza reticente. Nella vita di Bette Davis è fondamentale il rapporto con la madre e la sorella, un universo femminile dettato dall’assenza del padre che le aveva abbandonate a un destino di sopravvivenza, difficile specialmente per la madre, che divorziata doveva far fronte a problemi economici e al mantenimento delle figlie, una cosa complicata per le donne di un secolo fa. La prima parte del libro è un ritratto materno affettuoso e inconsapevolmente ambiguo. Ma, per quanto la Davis rimarchi continuamente la forza della mamma nell’aiutarla a realizzare il proprio sogno di diventare attrice, quel che ne viene fuori è, invece, il racconto di una donna ambiziosa che aveva proiettato i propri desideri di gloria sulla figlia, quasi un richiamo di viscontiana memoria alla Anna Magnani di Bellissima (il caso volle che l’icona italiana, insieme a Olivia De Havilland, diventerà una delle sue pochissime amiche). Una vita di successi pubblici e fallimenti privati, spesso causati da uomini non ancora pronti a accettare che una donna potesse avere più successo e più soldi; da qui i suoi quattro matrimoni falliti, da lei stessa definiti una farsa, e una figlia che le si rivolta contro scrivendo un libro al vetriolo sulla figura materna. Eppure alla fine Bette ci regala un ritratto di se stessa parimenti auto-ironico e auto-celebrativo, nonché una vera e propria lezione di recitazione e di storia del cinema: gli aneddoti sul modo di lavorare di registi e colleghi sono la parte più interessante e divertente.
Non risparmia, nel bene e nel male, giudizi su nessuno, a cominciare dal buon William Wyler, Willie, l’unico che riuscirà a dominarla su set burrascosi e a dirigerla in tre capolavori per i quali è maggiormente ricordata, Figlia del vento, Ombre malesi e Piccole volpi, pellicole entrate a far parte del cinema classico. Prima che essere definita una grande attrice Bette Davis rappresenta per l’epoca una nuova tipologia di attrice: quella che ottiene il diritto, fino a allora inesistente, di dettare le regole nello studio. Così come i suoi personaggi non sono mai donne in grado di sottomettersi all’uomo, ma anzi di esprimere il loro orgoglio e la propria indipendenza, altrettanto la sua vita può essere letta come una presa di posizione femminista. E in questo la sua figura è tangibile all’interno della Storia del Novecento; attraverso le sue eroine (dai film di Wyler sopra citatati a Perdutamente tua, Tramonto, Le cinque schiave, Eva contro Eva, Che fine ha fatto Baby Jane? etc.) lei ha insegnato alle donne a riscattarsi ottenendo una felicità e una vittoria più alta del matrimonio. La sua era quella di non voler essere bella, ma brava, tanto che negli ultimi due decenni della sua carriera accentuò quell’aspetto caricaturale della vecchiaia (il contrario di altre colleghe che trovano qualsiasi modo per bere alla sorgente dell’eterna giovinezza), tanto da recitare fino all’ultimo anno di vita e dopo gravi problemi di salute, tra cui un cancro e un ictus. E nonostante ciò, a due anni dalla morte, ne Le balene d’agosto i suoi occhi ruggivano ancora di forza motrice, nonostante rimpianti, delusioni e … la difficoltà di interpretare una donna cieca. Erano ancora una volta gli occhi di Bette Davis. La sua “vittoria sulle tenebre”, per parafrasare la sua Judith Traherne di Tramonto.
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