Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti
È quasi un’ossessione per gli americani raccontare le storie dei propri miti. Negli anni i biopic televisivi su figure leggendarie dello spettacolo, delle arti e della politica si sono succeduti ripetutamente; così le vite di Judy Garland, Dorothy Dandridge, Jackie Gleason, Georgia O’Keeffe, Amelia Earhart, Calamity Jane, come la maggior parte dei presidenti americani, hanno riempito i palinsesti. Ma, più di tutte, viene scandagliata quella di Marilyn Monroe (non a caso la scorsa settimana si è parlato dei Kennedy, alle cui figure di Bobby e Jack la bionda attrice è legata indissolubilmente, nel mito della tragedia o nella tragedia del mito): in tutte le salse e le prospettive possibili e attraverso il materiale di coloro che ancora oggi abusano dell’ascendente che la sua vita e la sua leggenda hanno avuto su milioni di persone: si tratti di una governante, un conoscente o uno dei suoi tanti ex-mariti. Storie che vengono riproposte periodicamente ad un pubblico che si è sempre nutrito delle sofferenze delle proprie star con tutti i dettagli più sordidi – non c’è niente di più pruriginoso di Hollywood che parla di se stessa e si mette a nudo. Una veste e una funzione che diviene seriale. Infatti, quest’anno è la volta di My Week With Marilyn, pellicola cinematografica di Simon Curtis, che uscirà nei prossimi mesi, basata sul libro di Colin Clark, terzo assistente alla regia de Il principe e la ballerina, che racconta il rapporto con l’attrice (impersonata da Michelle Williams) nel corso delle riprese. Tante sono insomma le pellicole sull’attrice che si sono succedute sul piccolo schermo, molte delle quali piuttosto esecrabili tanto nella loro qualità filmica quanto nella loro ricostruzione storica.
La più interessante del mucchio resta una del 1996 targata HBO, Norma Jean & Marilyn- Due vite un mito di Tim Fywell (in Italia distribuito in dvd da Cecchi Gori). L’opera si concentra, in particolare, sui problemi psicologici dell’attrice, che affondano le proprie origini in un’infanzia povera e miserrima, passata da un affidamento all’altro a causa di una madre schizofrenica; prosegue raccontando l’onda del successo e del mito, che viene sfruttato da parte di tutti coloro che le furono “vicino” – dai mariti Joe Di Maggio e soprattutto Arthur Miller ai vari insegnanti di recitazione, colleghi e uomini e donne varie – il desiderio di normalità e al contempo la voglia di essere qualcuno, che la porta a farsi sfruttare sessualmente (e consapevolmente) dagli uomini pur di andare sfondare nel cinema. La figura di Norma Jean, la donna desiderosa del successo, di non essere più violentata, abusata, dimenticata e quella di Marilyn, che deve fare i conti con il suo passato e la continua voglia di essere amata davvero, il desiderio di una figura paterna proiettata in tutti gli uomini da lei conosciuti, traspaiono in una danza narrativa di speranze e recriminazioni sottese. Vincente la scelta di far interpretare a due attrici differenti i due “personaggi”, ottima sia Ashley Judd nelle vesti della bruna Norma Jean che Mira Sorvino in quelli di Marilyn, ma la menzione speciale è per quest’ultima che aveva il compito più oneroso, ovvero quello di caratterizzare la vita della protagonista negli anni del successo e quindi raffigurare la Marilyn bionda dell’immaginario collettivo; la Sorvino non ricorre all’espediente caricaturale, ma concede alla sua protagonista una profonda introspezione psicologica. D’altro canto, però, anche la pellicola possiede le sue pecche, come la rielaborazione a tutti i costi dei must che l’hanno fatta entrare nel mito – la scena della sotterranea in Quando la moglie è in vacanza, il momento in cui canta Happy Birthday, Mr. President! a Kennedy, etc. Luoghi comuni e siparietti che si susseguono uno dietro l’altro e troppo velocemente nell’ultima mezz’ora, messi là solo perché il pubblico se li aspetta. Ne viene fuori da un lato, sebbene ben curata, la solita mistura del mito maledetto (spesso nutrito dalla morte, meglio se in circostanze poco chiare, di una persona bella, giovane e famosa) con tutte le nozioni biografiche ben impresse nell’immaginario collettivo, dall’altra gli schemi del biopic si mescolano con quelli del film psicologico, tanto da proseguire piano piano verso il racconto di una schizofrenia: Marilyn (Sorvino) immagina Norma Jean (Judd) che la rimbrotta sulle sue debolezze. Fywell costruisce in queste scene una sorta di thriller interiore, un dramma da camera che mette a confronto le due personalità così da ricreare il ritratto di una donna con le sue contraddizioni, le sue debolezze e le sue meschinità, i suoi abusi e le sue perdite. Ed è questa parte che mette a segno la vera natura della donna e del suo mito. Probabilmente il regista avrebbe dovuto dimenticare i canoni del biopic classico e si sarebbe dovuto limitare all’aspetto psicologico: ne sarebbe uscito un ottimo film, che non aveva certo bisogno di siparietti mondani calligrafici. Norma Jean indomita, Marilyn vittima. La prima esisteva, la seconda era solo una proiezione del pubblico.
Con questo articolo Flussi seriali vi augura buone vacanze, e dà appuntamento a settembre.