Belli e indipendenti – Indagine sull’odierno cinema indipendente a cura di Giovanna Barreca
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Era il 1960 quando sui Cahiers du Cinéma, Johas Mekas – direttore di Film Culture – decretava la nascita della nuova generazione di cineasti indipendenti americani. “In mancanza di meglio, la Nuovelle Vague di Truffaut, Bazin, Godard ha ottenuto in America almeno un risultato: ha spinto gli americani a cercare una nuova generazione di cineasti”. Aggiungiamo, non solo a cercarli ma soprattutto a dargli la possibilità di esprimersi, magari non con budget hollywoodiani ma con cifre accettabili, per un progetto che potesse ambire alla sala cinematografica. Il NAC, “New American Cinema” era il primo tentativo per questi avanguardisti di creare una sorta di manifesto, simile a quello dei colleghi francesi. Alla forma dei cineasti d’Oltreoceano cercavano di portare un cinema che finalmente si liberasse del cartello delle grandi case di produzione/distribuzione – che controllavano anche le sale – e permettesse la nascita di piccole compagnie in grado di aver completa libertà dallo script fino al montaggio e all’uscita in sala (memorabili alla memoria le ‘violenze’ dei produttori a film come quelli di Orson Welles solo per citare il caso più eclatante). Da quel giorno di strada ne è stata fatta tantissima e quanto il Sundance film festival abbia contribuito a questo processo ne abbiamo parlato diffusamente in questa rubrica anche perché quel vecchio movimento nel laboratorio di Robert Redford ebbe la possibilità di scrivere ulteriori pagine soprattutto nel rapporto con i grandi Studios. Registi indipendenti che iniziarono a creare un cinema ‘personale’ che si opponeva a quello delle industrie: John Cassavetes (Faces), Jonas Mekas (Guns of the trees), Lionel Rogosin (On the Bowery), Shirley Clarke (Bullfight), i fratelli Sanders (Time out of war), tanto per citarne alcuni. Gli eredi di quelle forme di cinema e di stile possono rintracciarsi, a partire dagli anni ’80-’90, nei fratelli Coen (Barton Fink), Spike Lee (Jungle fever), Katrin Bigelow (The loveless), Gus Van Sant (My own private Idaho).
Siamo partiti da un po’ lontano per arrivare però all’oggi dove, con budget più limitato ma con stessa attenzione, ricerca e osiamo affermare – dopo aver visto il film – anche con una buona dose di talento che fa sperare bene per il suo futuro, Christian Filippella ha intrapreso la strada della produzione indipendenti per la realizzazione di Silver Case, il suo primo film presentato al marchè di Cannes 2011, dove lo abbiamo incontrato. Il regista italiano, dopo aver frequentato il Centro sperimentale di cinematografia e raggiunti gli Stati Uniti per finire la sua formazione all’AFI, l’American Film Institute (la scuola frequentata da grandi autori come David Lynch e Terrence Malick) decide di provare a restare per girare il suo primo lungometraggio. Da qui l’incontro con diversi produttori e la scelta di realizzare un film giocando con il cinema di genere americano, omaggiandolo e aggiungendo una buone dose di ironia tanto da rendere l’esperimento davvero godibile. Ma nella nostra intervista, oltre a chiedergli del film, per la rubrica abbiamo soprattutto voluto indagare com’è oggi cambiata la produzione/distribuzione americana per gli autori indipendenti e quali sono stati, se ci sono stati, i problemi che ha trovato come autore non americano che si è avvicinato a quel mercato. E quanto conta ancora in America l’idea prima di tutto, una sceneggiatura ben scritta visto che è stato curato dallo stesso regista anche questo aspetto del progetto che ribadiamo, ci ha rivelato un ottimo autore perchè il film allestito in location autentiche intreccia scene di azione di incredibile verosimiglianza a un thriller che omaggia quelli hollywoodiani, riuscendo a coinvolegere lo spettatore.
Pellicola di meritevole fattura anche dal punto di vista tecnico e fotografico che vanta nel cast anche attori come Eric Robert che più della famosa sorella (Julia) ha sempre investito tanto in giovani realtà indipendenti, sbagliando molto molto raramente.