Dalla nostra inviata Giovanna Barreca
Usciamo dalla proiezione e veniamo abbagliati dal sorriso e soprattutto dal colore del vestito di Margherita Buy che sta percorrendo il red carpet per la prima proiezione ufficiale di Habemus Papam di Nanni Moretti. Tutti bellissimi, emozionati e sorridenti. La visione ci riconnette un po’ con la realtà perché negli ultimi 100 minuti il regista coreano Kim Ki-duk ci ha chiamati in causa: ha guardato letteralmente in macchina e ci ha chiesto come portare avanti il suo percorso umano; ci ha interrogati su cosa possa essere oggi il cinema e come ci possiamo riappropriare del concetto di cinema verità. I registi ospiti nella sezione Un certain Regard spesso introducono con il direttore i film e questa volta anche nella voce di Thierry Fremaux è palpabile l’emozione di poter finalmente presentare alla platea l’autore che proprio qui nel 2005 portò L’arco e in competizione Souffle due anni dopo. Il mondo del cinema era molto preoccupato per le voci sulla sua depressione che lo teneva lontano dal set e soprattutto dal mondo abitato dagli esseri umani. Vederlo in sala è stata un’emozione condivisa. Afferma di essersi ‘risvegliato’ e di aver forse ritrovato l’idea di cinema che da sempre sta dietro al suo cinema perché tanto si è interrogato su di essa e sulla messa in scena.
Sapevamo che a differenza di capolavori che ci hanno portato ad amarlo – Ferro 3, Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera – qui si sarebbe messo in gioco in prima persona ma certamente non immaginavamo un racconto così reale e violento. Ci ha portato a vivere con lui. Telecamera fissa in diversi luoghi della casa lo riprendono e lo rappresentano. Ha vissuto in una luogo talmente freddo in inverno che per dormire senza rischiare il congelamento è stato costretto a montare una tenda (nella quale oltre al letto c’è un mac e un secondo schermo per montare le immagini video). Una casa così spartana che non aveva l’acqua potabile e per lavarsi il regista andava fuori dall’abitazione e per cucinare e bere cafè, scongelava la neve. Ha vissuto in totale isolamento con un essere animale, un gatto (tanto da sentire qualche tanto bussare alla porta), ha creato un suo doppio che interagisse – come vediamo poi in fase di montaggio alternato – con lui e soprattutto in grado di porgli le domande alle quali non riesce a rispondere da quando un incidente sul set di Dream ha minato tutte le sue certezze e lo ha trasformato: da prolifico autore – in pochi anni regista di 15 film apprezzati e presentati nei festival più importanti del mondo – a uomo solo. E davanti alla macchina da presa si è ‘spogliato’ totalmente e oltre al doppio – ironico che lo rimprovera di pensare troppo e che alla fine bisogna uccidere per poter tornare alla vita – crea un’ombra che gli ricordi chi era quell’autore che ora abita qual corpo-carcassa spenta. Quella che ci lascia nel cuore il suo discorso così lucido è un’emozione sottile e profonda come quella provata dal suo canto popolare coreano sulle colline di Aaring, luogo di comprensione di sé (regalato poi anche durante le diverse interviste concesse). A tutti è chiaro che il percorso di rinascita inizia quando impugna la Canon 5000 e inizia a riprendersi. Ecco perché questo non è solo il diario crudo di una rinascita ma la ricerca formale di Kim Ki-duk tesa a trasformare ancora una volta in oggetto estetico con una sua grande forza tragica e drammaturgia ogni materiale rappresentato: dalla macchina del cafè espresso, alla carcassa di un pesce trasformata in paralume-carcassa ‘accesa’. Alla ricerca estetica di quel Kino di vertoziana memoria.