Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI
Alla 13/a edizione del Far East Film sono passati differenti film cinesi di varia natura e The Piano in a Factory di Zhang Meng e Aftershock di Feng Xiaogang sembrano la perfetta esemplificazione di come in realtà, al di là della superficie commerciale all’hollywoodiana, vi sia in Cina un magma di autori che si muovono in direzioni opposte, spesso non conciliabili.
Zhang Meng, nato nel 1975, appartiene a una generazione di cineasti che ha saputo introiettare la lezione di certo cinema europeo ed è soprattutto a quel modello che guarda il suo The Piano in a Factory. Storia dal respiro volutamente minimalista, il cui motore dell’azione è dato semplicemente da un pianoforte che viene costruito da un padre per una figlia all’interno di una fabbrica dismessa, il film di Zhang si fa forza di quell’atmosfera da post-realismo socialista tipico dei lavori di Kusturica degli anni Ottanta. Tra la fisarmonica suonata dal protagonista, i piccoli show per matrimoni e funerali e la colonna sonora con pezzi di gruppi punk-rock russi, emerge un coté tipicamente slavo che, in prima istanza, potrebbe stridere nel contesto della Repubblica Popolare Cinese. Eppure, Zhang Meng riesce a lavorare con personalità proprio su questo effetto di straniamento: i personaggi e la messa in scena sono consapevolmente fuori contesto mentre la scenografia dell’acciaieria dismessa – simbolo dello smantellamento industriale degli anni Ottanta – funziona da perfetto sfondo per una condizione comune a tutti i paesi socialisti, l’idea della fabbrica come funzione della modernità e del progresso. Perciò le dolci carrellate laterali su cui Zhang indugia nel mostrarci i suoi personaggi quasi in posa con alle spalle le rovine industriali valgono da malinconica parata della fine del comunismo. Tra la ex Jugoslavia e l’ex Unione Sovietica, anche la Cina si veste qui di un’idea postuma con una sinteticità e semplicità del discorso che dovrebbe risultare immediamente comprensibile e “affettiva” anche a un pubblico occidentale.
Esattamente all’opposto si muove Aftershock di Feng Xiaogang. Lì dove The Piano in a Factory, raccontando la dis-illusione della Cina anni Ottanta, lavora di sottrazione, il film di Feng spinge costantemente sull’enfasi e sulla sottolineatura patetica, per una sorta di exploitation emotivo. Aftershock passa da un terremoto all’altro, da quello del ’76 a Tangshan a quello del 2008 nel Sichuan, introducendo i drammi privati di una famiglia che finisce per dividersi. Le ambizioni sono da grande affresco storico perché partendo dal 1976, anno in cui tra le altre cose morì Mao e finì la Rivoluzione Culturale, e arrivando all’oggi si vorrebbero mostrare le trasformazioni della società cinese, dal comunismo al neo-liberismo. Quel che ne emerge invece è solo un grande, un enorme pasticcio in cui i protagonisti finiscono per disperdere la storia principale in scenette poco significative, mentre il ritratto di un Paese si riduce a semplice esibizione spettacolare. E se la messa in scena dei funerali di Mao non serve sostanzialmente a nulla da un punto narrativo e si spiega con una pura ambizione scenografica, la ricostruzione del terremoto del ’76 ha il difetto ulteriore di apparire immorale. Ricostruire con effetti speciali la morte di centinaia di migliaia di persone dà l’idea che Feng Xiaogang non tenga conto che, nella nostra società dello spettacolo, deve continuare a permanere un lacerto di irrappresentabile, superato il quale si finisce nell’osceno. E oscena, pornografica e ricattatoria appare anche la scelta che viene imposta alla madre alla fine del terremoto: scegliere quale dei due figli salvare, condannando a morte l’altro. Là dove la morte fu reale per centinaia di migliaia di persone è parso immorale che si sia scelto di innestare un mcguffin puramente fictionale (e crudele) come quello di dover scegliere un figlio piuttosto che un altro. Ma, evidentemente, l’idea che tutto sia rappresentabile deve essere piaciuta al pubblico cinese che ha accolto Aftershock come il maggior incasso di tutti i tempi.