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Da I soliti ignoti a La banda degli onesti, passando per le commedie sociali sull’Inghilterra thatcheriana – vedasi il Full Monty di Peter Cattaneo. Questi i riferimenti a cui Giovanni Albanese vuole fare capo per il suo Senza arte né parte, una commedia la cui arte di arrangiarsi diviene letteralmente arte. Infatti, in questo film due realtà diametralmente opposte, come quella delle gallerie, delle case d’asta e la povertà, la precarietà di un gruppo di operai di un pastificio rimasti senza lavoro in un paesino della provincia pugliese, si mescolano per fondersi in un mix di maccheronico impasto. Albanese, artista contemporaneo di fama nazionale, mescola sulla tela filmica un umorismo garbato che non vuole ambire a nulla di più di una riflessione bonaria tra le contraddizioni della povertà e quelle della ricchezza. Come può in periodo di crisi l’arte non perdere valore economico e le fabbriche di pasta ridimensionarsi? Questa la domanda sotterranea del gruppo di improbabili falsari che, nonostante i propri limiti culturali, riescono a copiare alla perfezione quello che centinaia osannano come capolavori.
Se invece si vuole analizzare un altro valore artistico, quello di questo film, lo si può paragonare a quello di un prodotto uscito da una catena di montaggio, e certo non divenuto arte contemporanea nel suo inserimento fuori dal suo contesto. Siamo ben lontani dal prodotto di un Duchamp cinematografico in tal senso, perché nel film di Albanese domina una struttura narrativa lineare quanto sciatta nella sua messa in scena, in parte affossata da una sceneggiatura che sfrutta sempre le solite dinamiche di base sulla disoccupazione e la precarietà e una comicità spesso monotona e inconsistente. L’idea di base – quella di mettere alla berlina il valore di un prodotto artistico solo in base alla sua quotazione di mercato e al nome del suo realizzatore – per quanto dissacrante nel suo finale non mantiene alto il livello dell’opera, che si affida solo alle maschere di comprovato successo commerciale di Vincenzo Salemme e Giuseppe Battiston e ad una serie di brevi caratterizzazioni di personaggi minori che sfilano brevemente per poi scomparire. Un’opera che si consuma velocemente, magari anche con qualche stiracchiato sorriso, ma altrettanto velocemente si dimentica. Sintomo di un prodotto artistico che non rivoluzionerà il cinema come l’ingresso dell’arte contemporanea avvenuta ormai un secolo fa. Senza arte né parte sin dal titolo diviene, più che metafora della società italiana, essenza di come viene fatto il cinema nostrano, dove tutti si improvvisano e fanno tutto senza un minimo di specializzazione nel campo. Albanese non è certo lo Schnabel de Lo scafandro e la farfalla ed è forse meglio che continui a produrre l’arte, non quella del cinema.
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