Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI
I film giapponesi selezionati quest’anno al Far East si rivestono di un’importanza particolare, per via del recente disastro avvenuto nel paese. Sono il simbolo, agli occhi degli spettatori del festival, della vita che deve continuare e il segno di una cultura ricchissima che saprà senz’altro rielaborare il lutto negli anni a venire. E due dei film nipponici presentati in concorso in questi giorni alla 13/a edizione del Far East Film valgono da esempi cruciali di un continuum, cinematografico e culturale: da un lato in Confessions di Tetsuya Nakashima si assiste al ritratto del nichilismo adolescenziale tipico della cultura moderna giapponese e dall’altro in Underwater Love di Shinji Imaoka viene celebrato un gradito tentativo di ravvivare le sorti del pinku eiga, radicato genere cinematografico con venature da soft-porno che, tra alti e bassi, ha innervato una parte importante della produzione nipponica degli ultimi cinquant’anni.
Tetsuya Nakashima è un nome ormai noto agli spettatori del Far East per aver già presentato qui a Udine due suoi film, Kamikaze Girl (2004) e Memories of Matsuko (2006). Con Confessions il regista continua ad affrontare i temi legati alla crudeltà dell’adolescenza, stavolta mettendoli a confronto con il desiderio di vendetta di un’insegnante decisa ad avere giustizia per la morte della figlia causata da due suoi studenti. Nakashima compone una sorta di requiem dodecafonico: le diverse voice over dei personaggi valgono da rispettive confessions della loro terribile crudeltà acquisita in seguito a esperienze tragiche, mentre le sequenze si dipanano con un montaggio ritmico e inesorabile guidato dalla cupa colonna sonora; un avvolgente meccanismo che lascia ripetutamente storditi e disorientati per la successione di sconvolgenti confessioni/impressioni audio-visive. Confessions è un film di un nichilismo tormentato quanto lucido e ragionato, forse però anche troppo raziocinante. La sensazione che si viene man mano ad acquisire è infatti quella di un eccessivo compiacimento verso la perfezione del discorso: in tal senso, una vecchia sveglia che si vede più volte, in cui le lancette si muovono prima a ritroso per poi tornare avanti, sembra una configurazione sin troppo precisa di un’eccessiva sovrastruttura meccanico-intellettuale, una metafora del narrare disorientante. Il film di Nakashima risulta straordinario nella prima mezz’ora quando emerge con chiarezza sia la crudeltà ragionata di alcune figure (l’insegnante e il suo desiderio di vendetta), sia l’istintiva e primitiva cattiveria di buona parte dei ragazzi che sbadigliano e ridono di fronte alle drammatiche parole della loro professoressa. In seguito, però questo fragile ma toccante e veritiero equilibrio finisce per perdersi a favore solo del primo termine: la vendetta a orologeria.
Tutt’altra atmosfera si respira in Underwater Love, amorevole omaggio al genere pink: qui, come in altri esempi simili di questo tipo di film, la sessualità è rappresentata in modo libero e gioioso, anche quando viene associata alla morte. È proprio il caso del film di Shinji Imaoka in cui un kappa (spirito acquatico leggendario) esce dal fondo del mare per raggiungere la compagna di scuola di un tempo, di cui è sempre stato innamorato, con l’intenzione di salvarla dalla morte. Pieno di tenera naïveté, rafforzata da sequenze musical volutamente ingenue e spoglie, Underwater Love finisce però per essere, per l’appunto, poco erotico proprio perché tutto teso alla rielaborazione estetica di un genere in via d’estinzione (valgano da esempio gli auto-referenziali cartelli su varie tonalità pink dei titoli di testa e di coda). Prodotto dalla Kokuei di Daisuke Asakura, leggendaria figura di produttrice cui il Far East dedica quest’anno un sostanzioso omaggio, il film è anche sostenuto da una casa di produzione tedesca. Perciò, invece di un low-budget estemporaneo girato al massimo in quattro giorni come avviene di solito per il pink, già la stessa co-produzione internazionale dà a Underwater Love un’aura da operazione autoriale. In tal senso vi sono nel film anche dei contributi d’eccellenza: la fotografia è di Christopher Doyle, autentico maestro del grande cinema contemporaneo, orientale e non (ha lavorato con Wong Kar-wai, Zhang Yuan, Gus Van Sant e M. Night Shyamalan), mentre la colonna sonora è stata composta dal duo minimalista elettro-pop degli Stereo Total.