Dalla nostra inviata Giovanna Barreca
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“La mia sola qualità è quella di stare in ascolto. Sento le storie e le immagino” confessa Erri De Luca – ospite della serata che apre ufficiosamente il Trento Film Festival– per raccontare come Il peso della farfalla sia nato dai racconti di chi proviene dalla storia e dall’esperienza di montagna. La sua immedesimazione visiva che gli permette di partecipare ed entrare nelle storie che gli vengono raccontate ha affascinato talmente tanti lettori che il volume in pochi mesi è diventato un best seller e presto diventerà anche un film visto che Stefano Gallini e Dean Zanuck ne hanno acquistato i diritti. Nel libro l’incontro tra un vecchio camoscio e un vecchio bracconiere, entrambi alla fine del loro esercizio, “alla fine della loro carriera, afflitti da una stanchezza assaporata e sazia” precisa l’autore che non ama la definizione di Moby Dick delle Alpi per questa storia raccontata “in un ambiente perfetto dove la specie umana è minoranza assoluta e il ‘più’ perfetto animale di montagna, acrobata delle vette, ha sempre accanto una farfalla bianca, simbolo di regalità, peso della corona per il re degli animali”.
L’autore, a fine incontro, ha raccontato ai nostri microfoni che potrebbe partecipare alla stesura solo dei dialoghi (non alla sceneggiatura) perché “è compito del regista rappresentare la sua storia in base alla suo modo di vederla”. Ma una cronaca onesta della serata non può non riportare almeno a parole, la fascinazione del pubblico che quasi ipnotizzato ascoltava la voce pacata, calda e appassionata dell’autore napoletano, nato all’ombra di una montagna – il Vesuvio – che con i suoi 1200 metri fa sentire addosso alla città il suo peso. La platea osserva il suo corpo esile e leggero che lascia intravedere la tempra forte di uno scalatore innamoratosi della montagna a trent’anni, quando andare in vetta era il modo più economico per l’allora operaio De Luca per passare le vacanze. Un amore ereditato dal padre che aveva fatto il militare negli alpini. Testimone reticente della guerra mai raccontata al figlio. “Di quegli anni ci ha sempre e solo raccontato la tenerezza per la montagna”. Uomo che aveva creato una stanza per i libri di casa e non una per il figliolo, ‘costretto’ a dormire con quella tappezzeria di libri sulla testa che però trasmisero tanto al futuro autore: “da bambino quei volumi mi diedero la vertigine perché mi permisero di conoscere gli adulti da dentro, capire come sono fatte le persone”.
Il giornalista Alberto Faustini ricorda le caratteristiche di arrampicatore di De Luca che cerca un contatto diretto con la roccia e che scava in essa come nella parola sempre trovata, precisa per cercare di vedere le cose da dentro. Che non usa la magnesite per non lasciare segni – “non sono autorizzato” – esattamente come non lascia il suo nome in vetta perché è solo un ospite in ambiente estraneo. Per poi lasciarci col concetto di fuga: “L’arte della fuga, l’uomo che fugge può combattere una seconda volta”. E deve usare lo stesso impeto e la stessa decisione necessari per un attacco. In De Luca è importante l’ascolto come organo d’informazione e l’andare all’origine della parola, della scrittura sacra nel suo formato originale “ancora integro perché non suddiviso” protagonista di molti suoi risvegli anche del periodo dei suoi lavori manuali quando utilizzava quell’ora di studio mattutino come momento solo per sé, come contrappeso alle ore che sarebbero state dedicate ad altro perché la testa venisse arredata con quelle parole antiche impresse nella mente.