Evidentemente per il pluri-settantenne Ken Loach non è ancora arrivato il tempo della quiete. Con L’altra verità, il regista britannico rinuncia al registro più leggero acquisito nel cinema dei suoi ultimi anni e sancito da quella menzognera ovvietà che l’uomo con l’avanzare degli anni perde la sua vena angry, arrabbiata (della cui corrente inglese egli stesso aveva fatto parte nei rivoluzionari Sixties), per una visione più spirituale e filosofica. In realtà, il percorso di questo autore è dettato – anche e nonostante ciò – dai cambiamenti storici: la fine dell’impegno politico del mondo occidentale, la morte di una classe operaria che pensionandosi ha fatto posto ad una confusione di valori e a tanto precariato, mentre si è lasciata alle spalle il mondo culturale che aveva alimentato per circa trent’anni. Ciononostante anche in quel cinema recente, opere come In questo mondo libero e Il mio amico Eric si fanno notare ancora per il guizzo di una coscienza profonda. Questa volta, però, il maestro del cinema inglese abbandona le periferie e il degrado urbano per concentrarsi su un altro sfondo: quella della guerra in Medio Oriente e il ruolo dei mercenari. Partendo da un’amicizia virile, spesso usata come collante nelle sue storie, e dalla perdita di essa. Attraverso la ricerca di una verità che diventerà ovvia, banale per quanto si rivelerà sporca. E con essa il film di Loach.
La pellicola sembra un omaggio ai suoi esordi tanto è rabbiosa, tanto è forte la voglia di affermare la verità scottante messa in luce dal protagonista. Un’opera che al contrario insegue, invece, un registro estetico e narrativo delle opere degli anni Novanta dell’autore, in particolare verso La canzone di Carla. Ma quelle denunce, quelle rivendicazioni per quanto indignate sembrano più che altro il grido accorato di un signore di mezz’età che ancora si sconvolge di fronte alla corruzione delle società dei mercenari e postula circa l’inutilità della guerra. Cose che sembrano non importare più nessuno, classe intellettuale compresa. E qui forse sta la consapevolezza di un regista e di un uomo donchisciottesco che ancora insegue un impegno politico e una ricerca morale in un mondo che ha dimenticato le manifestazioni, i picchettaggi e non dice più di no. Per questo, l’opera di Loach appare incredibilmente datata nella sua forma, che per quanto esemplare, a tratti rigorosa sembra parlare ad un pubblico di almeno vent’anni fa. Ma anche lui come altri della sua generazione un po’ si è annacquato. Infatti, il registro dell’opera sembra un attimo perdere quella rabbia sostenuta così tante volte; a favore di alcune debolezze narrative, che affondano il pedale in montaggi alternati di commovente retorica e infarciti dalle sviolinate solide e rudi della musica di George Fenton, in scivoloni sentimentali fra la vedova e il migliore amico e alcuni stilemi da thriller hollywoodiano. Si riprende in un finale che, da buon rimestare nel filone degli angry men, non concede spazio e speranza a nessuno. E nonostante tutto lascia ancora il suo segno e la sua amarezza. Nel bene come nel male, più nel male, il cinema di Ken Loach è un cinema che non c’è più; e nel migliore dei casi ha lasciato il posto al calligrafismo.
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