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Prodotto dalla Duea Film di Antonio e Pupi Avati e distribuito dalla Medusa in 350 copie, Se sei così, ti dico sì rischia di fare rumore soprattutto per la presenza nel cast di Belen Rodriguez. Eppure, il nuovo film di Eugenio Cappuccio (Il caricatore, Volevo solo dormirle addosso, Uno su due) merita innanzitutto attenzione perché riesce a distinguersi dal prodotto di “confezione” di tanta recente commedia italiana, che fa rientrare quei film in una sorta di “anonimato stilistico”. Se sei così, ti dico sì invece ha un’immagine “sporca” (è girato in digitale con una fotocamera Canon) e risente, probabilmente, di quel certo stile artigianale di marca avatiana, spesso un difetto, ma in questo caso apprezzabile perché dona spontaneità al tutto. In particolare, ne trae vantaggio la recitazione: Emilio Solfrizzi è patetico e divertente in modo quasi sublime nel ruolo del cantante-meteora Piero Cicala, mentre la Rodriguez risulta credibile e “innocentemente affascinante” nella parte della super-diva mediatica.
Nato da un’idea dello stesso Antonio Avati, il nuovo film di Cappuccio riesce a fornire un ritratto convincente della fragilità umana mettendo a confronto due perfette parabole del mondo dello spettacolo: la ragazza con tutti gli occhi addosso timorosa di perdere la bellezza e quindi il successo (decisiva in tal senso è la figura dell’amica, un tempo modella come lei ma ormai malata), e il cantante dimenticato e invecchiato il cui successo è rimasto inciso in un vecchio e logorato videoclip. A tratti crudele metafora dell’etereo concetto dell’apparire, Se sei così, ti dico sì può ben essere definito una commedia amara. Un apparire che è perfettamente esemplificato dalla figura della parrucca: sia la Rodriguez che Solfrizzi recitano per tutto il film imparruccati, mostrando e insieme nascondendo delle differenti ma vicine insicurezze; e, tra l’altro, l’idea di mostrare Solfrizzi invecchiato e imbruttito è un qualcosa che si vede raramente nel nostro cinema più recente, dove se il primo attore interpreta il ruolo di un principe come di un meccanico resta sempre uguale a se stesso.
Perciò, pur tenendo fermi certi disagi, a partire dai primi venti minuti ambientati in Puglia (fragili soprattutto per una scrittura didascalica e meccanica e per dei personaggi poco “sentiti”), questo film va considerato come una felice eccezione nel contesto della coeva commedia italiana, in cui quel che solitamente manca, oltre alla cattiveria, è un sentore dell’amarezza del vivere, un sentimento di disagio da far scorrere sottotraccia per poi “rovesciarlo” all’improvviso davanti al pubblico. Ed è invece proprio ciò che viene esplicitato nel film di Cappuccio.
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