Offside, ultimo lungometraggio diretto da Jafar Panahi prima del suo arresto, è stato girato e montato nel 2006. Nello stesso anno Panahi ha ricevuto l’Orso d’Oro a Berlino per averlo diretto. Cinque anni più tardi Jafar Panahi è in carcere – ci sta da molti mesi ormai – e la Berlinale proietta, come tributo ma ancor più come segno di solidarietà e denuncia, lo stesso film premiato cinque anni prima. Un paio di mesi dopo Offside esce anche nel nostro paese, l’Italia, ennesimo gesto di denuncia per non lasciare solo il regista oppresso; il gesto però non cancella né alleggerisce l’ottusità di chi non ha voluto distribuire il film prima d’ora. Tra le cinematografie contemporanee in giro per il mondo l’iraniana è certo una di quelle che di più ha subito l’imprinting del neorealismo di De Sica-Zavattini, di Rossellini, e degli altri italiani, se ce ne sono stati. Al cinema di Panahi i critici d’oltralpe non hanno temuto di attribuire l’etichetta di “neorealismo iraniano”, e non è che si possa dar loro torto vista l’ossessione del regista per il presente, per la realtà sociale e politica del suo paese, per il racconto sempre in bilico tra documento e finzione, improvvisazione e premeditazione, analisi e intuizione.
In Offside il tempo del film corrisponde quasi perfettamente a quello reale: il racconto segue le vicende di un manipolo di ragazze che, nonostante i divieti oscurantisti, tenta di guardare dagli spalti dello stadio di Teheran la nazionale di calcio che gioca contro il Giappone per ottenere la definitiva qualificazione ai mondiali. Dai confusi e concitati momenti prima dell’ingresso allo stadio, fino alla festa notturna in mezzo alla folla, Panahi centra la macchina sugli attori – che qui non sono professionisti e che si trovano mescolati alle migliaia di comparse inconsapevoli, realmente coinvolte nelle vicende intorno al match calcistico – disinteressandosi alla costruzione di un forte impianto narrativo, al disegno di personaggi complessi e “autoevidenti”, alla scrittura di una sceneggiatura tonda e chiusa. Quel che conta qui è il fatto, l’azione, il gesto, la parola anche, ma solo come sintomo inatteso, movimento inconsulto, scherzo, accidente utilmente insensato. All’inizio sembra che alla fitta rete della legge non si scampi, che ogni speranza e ogni gioia, ogni piacere e ogni possibile sia negato dalla violenta imposizione della norma (rigorosamente maschile). I soldati però sono ragazzi costretti alla leva che tifano con buffa scompostezza e guardano alle giovani coetanee con distacco solo apparente. E alla fine cancelli e sbarre sembrano aprirsi, le distanze addirittura scomparire. Forse questa è la parte meno documentaristica, più ispirata dalla speranza e meno dalla riproduzione dell’esistente. L’edulcorazione della realtà non c’entra: quel che dice Panahi con questa iniezione di vitale incertezza è che pensare, desiderare, pretendere un paese diverso si può e si deve e che è dall’osservazione e dalla giusta considerazione dell’umanità che può venire una salvezza.
Vai alla SCHEDA FILM