Diario del 17 febbraio dalla 61. Berlinale
(Dalla nostra inviata Lia Colucci)
18/02/11 – L’ottava giornata del festival berlinese è cominciata con il film in Concorso del regista coreano Lee Yoon-ki: Come Rain, Come Shine. La storia, praticamente inesistent,e tratta di una ipotetica separazione tra Lei e Lui, così vengono chiamati (She and He). Lei vuole lasciarlo per un altro uomo ma non è sicura, nel frattempo passano il tempo a mangiare e ad osservare il diluvio imprevisto che sembra devastare ogni cosa compresi i personaggi. Un film fatto di silenzi lunghissimi, di pause inenarrabili, di acqua che scroscia per minuti interi sopra lo spazzolino da denti. Primi piani infiniti, divani consunti dalle lunghe attese. Solo l’arrivo di un gatto sembra movimentare per qualche minuto la narrazione poi tutto ricade nella totale incomunicabilità, a meno che non si tratti di cibo, allora sia Lui che Lei riprendono vita per qualche istante. Sbalorditiva pellicola che intende indagare la crisi di coppia e la psiche umana senza riuscirvi neanche per qualche breve momento. Un film senza un inizio e una fine, non dico convincenti ma neanche esistenti. L’altro, l’antagonista, si palesa una sola volta e per telefono col fine di venirla a prendere. Poi, causa pioggia, decide di rinviare: un vero amore da manuale. Ma loro non ci fanno caso, si preparano l’ennesimo piatto di spaghetti. Probabilmente l’omaggio del Festival a Bergman deve aver fatto qualche vittima, pessimi epigoni asiatici del Grande Maestro che sembrano essere impazziti sulla via della settima arte.
Odem (sempre in Concorso) diretto dal regista Jonathan Sagall, canadese ma cresciuto professionalmente a Londra, segue il percorso di Lara, una donna palestinese che vive nella capitale britannica all’interno di un matrimonio borghese e privo di emozioni che però gli ha donato un figlio di sette anni. A questa vita Lara pare essersi rassegnata: una bella casa, una macchina costosa, due camere separate. Finché all’improvviso nella sua vita tranquilla non riappare dopo 15 anni Inam, la sua inseparabile compagna di adolescenza nella West Bank e successivamente sua grande amica a Londra nei primi durissimi periodi della loro gioventù. Inam è rimasta la ragazzaccia di sempre, ma Lara attraverso di lei rivive tutti i ricordi che credeva cancellati o sperava di cancellare, come il suo alcolismo, lo stupro di Inam da parte di due soldati ebrei, la solitudine della grande metropoli dei primi tempi, le loro piccole complicità sessuali. Così Lara la caccia di casa, ma Inam si ripresenta, fradicia di pioggia, sola ed infelice. Mentre la lascia ristorare con un bagno caldo, Lara si riattacca dopo anni alla bottiglia di Vodka e si fuma una sigaretta sopraffatta dai ricordi e dalle emozioni. Un film sulla memoria scomoda – fatto di flash back improvvisi e devastanti, che sconvolgono una vita apparentemente soddisfacente per farla tornare in un abisso di desideri e piaceri da riscoprire – e dove soprattutto si mette in luce il fatto che non si riesce mai a cancellare la propria personalità e i propri istinti. Il cineasta è molto astuto nel catturare tutto questo in un gioco di detto non detto, sempre in sospeso tra menzogna e realtà, tra pietà e senso della sopravvivenza. Girato in maniera pacata e totalmente concentrato sulle due donne, viene volutamente escluso il mondo maschile e se lo inserisce e solo per mostrarlo crudele o indifferente. A riscattare gli uomini c’è solo il figlio di Lara, con la sua naturale tenerezza.