Diario del 15 febbraio dalla 61. Berlinale
(Dalla nostra inviata Lia Colucci)
16/02/11 – La sesta giornata del Festival di Berlino è cominciata con un interessante film iraniano, Nader and Simin, a separation (Fuori Concorso), diretto dal regista cresciuto cinematograficamente a Teheran Asghar Farhadi. La storia è piuttosto semplice, racchiude però un dramma psicologico molto intenso: Simin vorrebbe lasciare l’Iran per una vita migliore all’estero, ma Nader, il marito, si fa scrupoli perché il padre è molto malato e non se la sente di lasciarlo da solo. Per questo chiede il divorzio, abbandona il domicilio coniugale e si rifugia momentaneamente dai suoi genitori, restando solo con il vecchio padre e la figlia Termeh. Per non sprofondare nel disordine e nell’abisso si fa aiutare da una giovane badante incinta che però non avverte il marito di questo nuovo lavoro. Un giorno Nader torna a casa e trova il padre abbandonato, in condizioni pietose e questo scatena in lui una reazione emotiva tragica, che si scatenerà sulla badante Razieh e che si ripercuoterà anche sull’ l’immagine che ha di lui la figlia. Il regista non si occupa assolutamente della situazione politica del suo Paese, piuttosto lavora sui difficili percorsi burocratici dell’Iran, incredibilmente poco pratici da vivere. Quindi si sofferma su una Teheran confusionaria ma vitale, ma quello che più gli interessa sono i sentimenti umani – come quello del legame coniugale – o piuttosto i figli, sempre vittime delle scissioni familiari. Proprio come succede a Termeh, che dovrà prendere la terribile decisione se vivere con il padre o con la madre. In fondo Farhadi sembra dirci che in questi difficili campi emotivi tutto il mondo è paese.
Quello che è stato il film rivelazione al Sundance Film Festival, The Future di Miranda July (in Concorso),forse proprio perché tanto atteso ha riservato qualche piccola delusione. Una pellicola anarcoide e nello stesso tempo reazionaria che narra le vicende para-hippy di due giovani: Sophie (Miranda July) e Jason (Hamish Linklater) che stufi dell’ovvietà della loro esistenza decidono di ricominciare tutto da zero. Dopo aver comprato un gatto, ma solo per tenerlo sempre in gabbia, abbandonano i loro rispettivi lavori con l’intenzione di vivere un’utopica esistenza incentrata solo su loro stessi e sui loro veri interessi. Il tempo non conta, potrebbe essere un mese come cinque anni. Così comincia la loro nuova vita, anche se da subito si intuisce come l’esperimento cominci a scricchiolare: mentre Jason più o meno se la cava rompendo le scatole a tutto il vicinato e distribuendo volantini per le imprese più improbabili, Sophie sente i primi morsi della solitudine, e il gatto si lamenta della sua prigionia. Sophie cerca di colmare la sua scontentezza riempiendo di telefonate uno squallido cinquantenne della Valle, un certo Marshall (siamo ai livelli di stalking) che alla fine incuriosito accetta di incontrarla. All’anziano uomo non pare vero cominciare una relazione con la giovane, che si ritrova così in una situazione che più borghese non si può con Marshall più figlia a carico. Intanto Jason deluso e sconsolato tenta di riportarla a casa con i suoi esperimenti new-age, e qui si scatena la regia surreale della July: tramonti e mareggiate, lune di tutti i tipi, piccoli archetipi di genere animale, vegetale e astrale, tutti partoriti dalla visionarietà di Jason. Ma i risultati rimangono scarsi.
Un film sicuramente originale, girato in una Los Angeles raccolta in un fazzoletto, dove solitudine, stanchezza della routine e voglia di ricominciare naufragano tragicamente in qualcosa di molto peggio. Si assiste al fallimento di un’intera generazione, che per andare troppo avanti finisce per rifarsi neanche più ai propri padri bensì ai propri nonni. Ma senza le troppe aspettative il film è divertente e grottesco, nonché sorretto da un’ottima regia e dai personaggi che interpretano alla meglio il loro ruolo.