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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Strategia del ragno” (1970) di Bernardo Bertolucci: uno dei migliori Bertolucci di sempre, tra riflessione sul linguaggio cinematografico e “noir dell’anima”
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
25/01/11 – Una vera “Nouvelle Vague”, intesa non tanto come estetica unitaria (ché Truffaut, Godard, Rivette e compagni produssero poi un cinema assai diversificato uno dall’altro), quanto come movimento compatto e solidale nel rinnovamento del linguaggio cinematografico, in Italia non si è manifestata. Bernardo Bertolucci, in realtà, appartiene a una generazione anche molto vivace sotto il profilo del rinnovamento e della rottura dei codici cinematografici italiani, ma tale generazione si è sempre mossa secondo strade molto più individualizzate. In Italia, si potrebbe dire, ognuno compie la propria rivoluzione estetica. Quando sottile e tecnica (Bertolucci), quando arrembante e ideologica (Marco Bellocchio), quando fumosa e anarchica (il primo Tinto Brass)…
Bertolucci gira Strategia del ragno a poco meno di trent’anni. Autore giovanissimo, ha già alle sue spalle tre film, generosi ma scarsamente riusciti. Autore che ha già ripercorso esplicitamente (e piuttosto infelicemente) le sperimentazioni dei cugini francesi in Partner (1968), e che, con Strategia del ragno, perviene probabilmente a una prima compiuta sintesi espressiva della sua ispirazione, rivelandola per unica e irripetibile. Da una parte, è rilevabile una riflessione, non frequentissima per la nostra cinematografia, intorno al mezzo cinematografico in quanto tale. Ovvero, gli strumenti espressivi propri al mezzo-cinema sono utilizzati in senso profondamente critico e consapevole; l’inquadratura, ma più ancora il movimento di macchina, ottenuto tramite carrelli, panoramiche o zoom lenti e meditativi, sono puntualmente sottoposti a un uso non istintivo né meramente funzionale al racconto, bensì a una finalizzazione espressiva, in cui forma e racconto si tengano strettamente legati nella resa estetica. Dall’altra, è altrettanto sottoposto a revisione critica il materiale narrativo prescelto. Un dramma sulla memoria e sul passato, che intreccia sapientemente storia e individuo in un unico, tragico sviluppo, con chiari, e nuovi per il nostro cinema, riflessi psicanalitici. Valori aggiunti, un’ispirazione intensamente animata dal gusto per il melodramma operistico italiano (sin troppo evidenziato nel film, con superflue ridondanze ed eccessive insistenze), e una ricerca mai banale, e men che meno calligrafica, per i riferimenti pittorici alti. Che non si riducono a elegante fondale scenografico, bensì si combinano con la profonda ricerca linguistica sul mezzo-cinema che più di tutto pare animare il primo Bertolucci.
Così, il più facile ed evidente richiamo alle prospettive “sconfinate” di De Chirico si riconfigura in un uso altamente espressivo della profondità di campo, tramite il quale il protagonista pare perdersi nell’immensità del mistero (la figura del padre), ma al contempo pare ritrovarsi prigioniero di paesaggi sempre lineari, geometrici, dai quali la fuga non è più contemplabile. Man mano che il racconto procede, la dimensione narrativa si fa sempre più mentale, e sempre meno reale. Il passato e il presente s’intrecciano senza segnali di cesura (i personaggi non invecchiano né ringiovaniscono, la ricostruzione storica del passato trascura qualsiasi premura di filologica verosimiglianza), e almeno una sequenza-chiave si dispiega in ambiente onirico. Avvincente come un noir, di cui non trascura i canoni narrativi, seppur declinati in chiave d’indagine interiore, Strategia del ragno compendia e illumina, in poco più di 90 minuti, la vera anima di un autore che, in seguito, si disperderà talvolta nelle grandezze delle produzioni internazionali.
Geometria dell’inquadratura, profondità di campo, passato e presente che sfociano uno nell’altro, noir e melodramma della memoria in un frammento di tre minuti: