I figli come forza lavoro, schiavi delle circostanze. Da sempre nel mondo sono esistite famiglie numerose con tanti figli nati a tale scopo e nelle prime scene di Aicha di Mehdi M. Barsaoui, presentato in Orizzonti Extra all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia sembra che sia questo il ruolo della giovane protagonista Aya, ventenne tunisina impiegata come cameriera in un albergo che da sempre lavora per pagare le bollette e le spese di casa, destinata ad un matrimonio combinato solo per saldare i tanti debiti della famiglia. Aya odia tutto della sua vita ed è frustrata da una relazione con un uomo sposato, gestore dell’albergo per ricchi dove lavora. Quando il bus dell’albergo che porta Aya e altri dipendenti ogni giorno alla struttura precipita in un burrone e lei miracolosamente riesce a strisciare via prima dello schianto e dell’esplosione, la giovane sceglie di rinascere, di immaginarsi un altro futuro. Lascia che tutti, compresa l’assicurazione, la credano morta e fugge via. Le prime immagini della giovane nella capitale Tunisi profumano di una libertà piena di speranze. La macchina da presa quasi sempre ferma che fino a quel momento sovrastava la protagonista per enfatizzare ancora di più lo stato di oppressione e di immobilità forzata, finalmente si muove libera nello spazio. Tunisi e la sua luce contrastano con la sabbia e il grigio delle abitazioni del paesino. Ogni elemento fa pensare all’inizio di un film che idillicamente spingerà lo spettatore verso il futuro radioso della giovane e invece tante insidie e nuove prigioni dell’anima, più che del corpo, aspettano la ragazza.
Dagli ambienti oppressivi e bui dell’albergo e della casa natia, come spettatori, si ci mette accanto alla protagonista, si vivi con lei la schiavitù così comune a tante donne del presente e del passato, e con lei la gioia del suo sguardo verso l’orizzonte, verso un nuovo futuro sembra il perfetto lieto fine sperato tante volte. Ma è proprio da quell’inquadratura così vicina, con il mare di Tunisi ai margini del quadro che si sviluppa il film perché la ricerca di libertà e di emancipazione è complessa e piena di insidie che lo spettatore fino ad allora non ha neppure ipotizzato: tra donne che portano il velo integrale (per convinzione o perché costrette) ne esistono altre che vestono all’occidentale e uomini che non solo le guardano ma le usano come prostitute. Tanti mostri davvero crudeli e subdoli. La protagonista che sembra così scaltra, non ne immaginava neppure l’esistenza.
“Il simulacro della morte per vivere anziché sopravvivere ha ispirato il titolo del film: Aïcha, che in arabo letterale significa vivo” afferma il giovane regista e sceneggiatore che ai nostri microfoni ci ha parlato della storia vera che ha ispirato il film, dei movimenti di macchina scelti per permettere allo spettatore di stare così vicino alla giovane interprete Fatma Sfar, davvero in parte. Nel film dalla sceneggiatura piena di stratificazioni, emerge anche un quadro delle situazione politica e sociale della Tunisia, non solo per tutto ciò che riguarda i diritti e le libertà negate alle donne, ma anche le paure di tutta la popolazione per la corruzione presente all’interno di organi statali come la magistratura e la polizia. Brutti strascichi della rivoluzione promessa nel 2011 ma non compiuta, in un paese ancora in cerca di una vera democrazia. Da questo elemento che il regista aveva già fatto emergere nel suo primo film Un figlio (visibile su Prime video) si sviluppa tutto il complotto che coinvolge la protagonista e inevitabilmente lo spettatore.
Ottime anche le scelte legate alla colonna sonora di Amine Bouhafa, in un film davvero riuscito.
giovanna barreca